per una nuova definizione di intellettuale


E' un grande peccato che la figura dell'intellettuale sia stata inglobata in quella - penosa - del privilegiato da salotto che spara sentenze dai cuscini di cashmere, lontano dalla realtà delle cose e stipendiato da non si sa chi. E' una delle tante colpe attribuibili a una brutta versione della sinistra dei privilegi (quel liberal insulso che ha offerto su un piatto d'argento vittoria e consensi ai Trump di tutto il mondo, fregandosene di lavoratori e giovani) e un grosso danno alla coscienza collettiva, bisognosa come non mai, oggi, di essere nutrita e aiutata dal filtro culturale di un pensiero, in mezzo al marasma di proposte e sparate che puntano agli intestini della società piuttosto che alla sua parte critica. 
La rapida evoluzione del contesto socio economico sta determinando anche la necessità di ripensare in modo incisivo la figura dell'intellettuale nella società occidentale. Sempre più ai margini del discorso, rinchiuso in una dimensione a metà strada tra l'anacronistico e il ridicolo, l'intellettuale ha finito per essere assimilato al predicatore da salotto, al giornalista tuttologo, al cattedratico di professione: insomma, al miracolato. La mutazione che stiamo vivendo in questi anni (in queste ore) sta mettendo sul piatto qualcosa di diverso, la possibilità cioè di ridefinire il ruolo dell'uomo di cultura secondo nuovi parametri. Primo fra tutti: l'intellettuale che voglia presentarsi in modo credibile deve lavorare. E per lavoro non intendo la redazione di un giornale di lusso o l'assenteismo retribuito da cattedra, a zero pubblicazioni ma a molte chiacchiere. Intendo un lavoro: uno stipendio, una professionalità vera, un qualche livello di produttività che non si risolva nella formula ridicola del "creare". Siamo un po' fuori tempo massimo per questo. Elzeviri, critiche, recensioni, rubriche, film, lectures, seminari, congressi, tutto quello che si vuole: però poi a lavorare. Mantenersi senza la sovvenzione pubblica e senza il patronato di un qualche ricco signore che finanzia il tempo libero di troppi pennivendoli dediti alla piaggeria come ad una droga pesante. I risultati di questo scollamento dalla realtà sono sotto gli occhi di tutti: assoluta incapacità di interpretazione dei fenomeni e molta arroganza. Servissero a qualcosa questi intellettuali del niente: non un libro serio, non un riferimento colto. Chiacchierano, si indignano, firmano petizioni che non servono a niente, scrivono libri che fanno schifo. E poi un infinito conformismo à la page, sempre molto alla moda in fatto di temi caldi e opinioni di tendenza ma di una povertà sconfinata quando si tratta di prendere posizioni originali e critiche. Una codardia programmatica che è lo specchio di questa classe intellettuale ormai a brandelli, che vive solo dei premi che ancora riesce a darsi addosso. Mi ricordo del libro di un famosissimo giornalista, stipendiato da un grosso quotidiano, il quale, nella quarta di copertina, si vantava "di non aver fatto altro per guadagnarsi da vivere che scrivere". Molto male. Ecco, io spero sul serio che quei tempi siano finiti. E che questi personaggi debbano prima o poi confrontarsi con contratti capestro, disoccupazione, conti da far quadrare, bollette, pasti raffazzonati e rinunce. Magari lorsignori riuscirebbero in questo modo ad azzeccare qualche previsione in più. Forse non imparerebbero a scrivere, filmare, pensare meglio, ma di certo perderebbero quel sorrisetto di sufficienza con cui hanno deriso e stanno deridendo l'inizio di un cambiamento che potrebbe (uso ancora il condizionale perché non si sa mai) costringerli per la prima volta a compilare un curriculum e a mettersi in fila come tutti gli altri.

la parte emozionale


Una frase captata in un ufficio come tanti: "Bisogna imparare a gestire la parte emozionale delle persone." Tralasciando per un attimo la brutta traduzione dell'inglese emotional, lo schematismo verbale di queste poche parole ha qualcosa di sorprendente: è un chiaro segno dei tempi e la resa verbale di un'introiezione di valore. Un valore inteso come prezzo. Gestire le persone per accumulare soldi. Gestire la parte emotiva dell'uomo nei termini di un valore d'uso. Una forma di manipolazione che è molto meno frutto di una strategia aziendale di quanto si potrebbe pensare. Non è un prodotto originale: è l'assunzione di un modello. Quei due dirigenti non stavano tramando un piano subdolo a danno di qualcun altro: stavano solo applicando un modello nel modo più neutro possibile. Una formula appresa in qualche tutorial. Una applicazione ingenua, ma non innocente.
Diceva Jean Baudrillard in un saggio epocale intitolato Lo scambio simbolico e la morte che "Le finalità sono scomparse, sono i modelli che ci generano." Modelli, cioè standard riproducibili. Standard che non generano senso perché essi stessi si pongono nell'ottica autoriferita di un senso che pretende di generarsi da solo. Scuola, istituzioni, politica, lavoro. La possibilità di un significato, in questi e molti altri ambiti, scivola sullo sfondo, come il residuo sgradito di una formazione così detta umanistica (una parola inutile che serve solo come etichetta). Il banale perché delle cose declassato a informazione secondaria, non necessaria. Nell'ottica della performance il significato non ha cittadinanza: regole, burocrazia, modelli di comportamento. Manca uno scopo. Questa assenza è coltivata e non casuale: nasce da un progetto che è insieme sintomo e causa del declino occidentale, un progetto che ha escluso la funzione critica del pensiero - la facoltà di analisi di un fatto - sostituendola con una versione distorta e utilitaristica di razionalità, dove di razionale non c'è nulla, se non che questo comodo riferimento consente di ridurre la logica ad un calcolo quantitativo di vantaggi e svantaggi, spese e ricavi. La presunta efficienza di questi modelli si presenta sotto le spoglie di un'esecuzione tecnica efficace: ma in nome di che cosa? In paragone a cosa? La domanda è inevasa per la semplice ragione che non esistono riferimenti perché non esiste un discorso critico che si sia sviluppato in parallelo all'uso estensivo della tecnica come modello etico/politico della società contemporanea. Sono stati scritti molti libri su questo argomento, da Heidegger a Severino. Ma il problema forse sta trovando la sua compiutezza solo ora, nell'ambito del dissolvimento della funzione critica nel cuore dell'Occidente. Quella morbo della ricerca della causa prima che serpeggia da sempre nella riflessione europea, trova oggi un punto d'arresto mai così definitivo. Scriveva Cartesio nelle Meditazioni metafisiche: "Che cosa dunque sono io? Una cosa che pensa. E che cos'è una cosa che pensa? E' una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che che immagina anche, e che sente". Come dire, tutto ciò che oggi come oggi rappresenta un disvalore all'interno della società tecnocratica e che viene relegato - e forse anche demandato - alla cattiva letteratura e ai film mediocri, dove l'abbondanza di sentimento ingenuo e melenso in qualche modo riassorbe e banalizza al massimo grado tutte quelle istanze morali e psicologiche un tempo indispensabili per la ricerca del sapere (pensiamo per esempio all'ignobile fine del termine romantico). La performance e il relativo accumulo di denaro come modello di base dei valori occidentali - modello sganciato da qualsiasi orizzonte di senso - si presenta allora come una forma contemporanea di nichilismo: l'ottimismo del niente. Quel tipo di ottimismo che nega per principio qualsiasi riflessione sul reale imponendo un modello a senso unico: quello della felicità individuale a portata di mano. Perché la verità non è più una scoperta, ma una cosa che si può creare, se non nel concreto in quell'equivalente generale del concreto che è il digitale. E la cui dimensione si misura in realtà con il solito, vecchio equivalente generale marxiano del denaro. Per questo la "gestione della parte emozionale" è un'affermazione che rappresenta il contemporaneo: perché ne propone i valori nei termini di una manipolazione. Caratteriale, comportamentale, sociale. La correttezza di questo modo di fare non è data da un'etica ma dalla possibilità che questa azione abbia delle ricadute economiche. E' la tecnica che si determina come riferimento di se stessa: come verità autoprodotta.

due chiacchiere su Guerra e Pace



Affrontato per la prima volta a trent'anni Guerra e Pace. Pensavo di dover scalare una montagna e invece mi sono trovato in una sconfinata pianura con un buon gruppo di amici: principi, conti, contesse, militari, gente del popolo, russi, francesi, tedeschi, austriaci e anche qualche italiano. La storia più o meno è nota: periodi di pace e di guerra tra uno scontro con Napoleone e l'altro, descrizioni minuziose di battaglie e strategie, chiacchiere fumose nei ricchi palazzi moscoviti e in generale il tempo che passa, qualcuno muore, qualcuno cambia, qualcuno resta tenacemente se stesso. Ho affrontato questa lettura con tutta la semplicità di cui dispongo, senza pretendere di andare oltre il significato delle parole e senza mettere dei filtri tra me e il testo. Come sempre più spesso faccio ho anche lasciato perdere l'introduzione in un primo momento, proprio per presentarmi di fronte alla lettura nel modo più spoglio e immacolato possibile. Non sentivo il bisogno di adattare Tolstoj a dei preconcetti o ancora peggio a delle teorie letterarie; ho preferito vivere il contenuto pagina per pagina fino a scoprire che Guerra e Pace è proprio questo: il gusto del racconto senza doppi fini. Un romanzo mostro che quasi nessuno ha letto in epoca recente, ma che nel passato ha accompagnato generazioni di lettori che concepivano la letteratura ancora come una finestra sul mondo, un modo per passare il tempo, ma ancora di più per riflettere sul tempo, sul grande mistero codificato poi da Proust di cui Tolstoj è un precursore meno cerebrale e più sanguigno. 
 

Altro uovo di Colombo: per addentrarsi in Guerra e Pace non c'è bisogno di nessun armamentario filologico, perché questo libro è un feuilleton, un fogliettone a puntate uscito in rivista e dato in pasto ad un pubblico borghese in grado sì di leggere, ma di certo poco avvezzo ai ghirigori tecnici che una certa cattiva critica novecentesca avrebbe usato per etichettare tutto e tutti. Tolstoj è aperto, anche quando denuncia le storture e gli opportunismi della storiografia classica: è un maestro nel demitizzare le incrostazioni verbali che l'occidente chiama Storia. La sua è una rivisitazione puntigliosa e scomoda, che si fa largo tra una porzione e l'altra di narrativa pura: Tolstoj è narratore, ma anche filosofo, storiografo, educatore, maieuta della coscienza. Appartiene ad una generazione in cui il romanzo rappresentava ancora una possibile summa della conoscenza: il luogo dove l'intelletto volgarmente detto umanistico ma anche scientifico potesse trovare la sua sintesi plastica e, perché no, divulgativa. C'era un pubblico di lettori da informare in qualche modo. Il romanzo aveva cioè una funzione diversa rispetto ad oggi: un'istanza civile e appunto divulgativa che oggi fatichiamo a comprendere. Quelle che oggi in Tolstoj chiamiamo, con un orrendo termine ginnasiale, digressioni, erano in realtà lo spazio entro cui l'autore inquadrava gli avvenimenti narrati in un'ottica storica e filosofica, cioè il momento della sintesi offerta al lettore.
Possiamo poi discutere sulle influenze culturali di Tolstoj, e su certi aspetti della sua filosofia che oggi possono apparire ingenui, o risultato di un accanito bricolage filosofico tanto tenace quanto un po' naif in certi passaggi, ma tutto questo recupera una misura comprensibile se ci rifacciamo al contesto in cui questa comunicazione è avvenuta: il feuilleton.
Non so quale senso possa avere oggi rileggere Tolstoj. Se accettiamo per un attimo il vincolo utilitaristico a cui è legata la letteratura di consumo o lo scempio scolastico universitario che si compie a danno della letteratura, allora no. Non ha senso leggere Tolstoj. In un mondo in salsa talent, Guerra e Pace non ha cittadinanza. Perché è terribilmente lungo, di genere inclassificabile, con scene torrenziali inutili ai fini della narrazione. E poi le riflessioni dell'autore, buttate lì ogni tot pagine a rallentare un ritmo già parecchio rilassato. Se ci liberiamo di queste scorie allora possiamo provare a considerare questo libro come un amico: un po' démodé e teneramente dissennato ma capace di fascini radicati e nascosti, gesti di dinamica e ampia generosità che ci lasceranno stupefatti. E' un libro che tiene compagnia. Un dialogo attraverso i secoli e mi permetto di dire tra gentiluomini. Una scampagnata a cavallo, sciabola in pugno, a ritrovare le origini del contemporaneo e allo stesso tempo gli ultimi fuochi di una civiltà ormai scomparsa.