io non credo nei guerrieri

Non partirei dal brillante laureato che ha sfondato in qualche università inglese o americana (capisco l'America, ma la Gran Bretagna è un ex impero che traccheggia quanto o peggio di noi); non parlerei del coraggioso imprenditore del nord est; non metterei in sequenza i primi piani di un impiegato, di un fuochista ottuagenario, di una in impermeabile giallo sulla metropolitana, di un travet in coda sulla tangenziale dicendo che sono guerrieri (al massimo schiavi come me e come tutti, ma chiamiamo le cose con il loro nome). Non girerei nemmeno un corto dove il solido padre di famiglia fa gli straordinari per godersi la laurea del pargolo, perché mi fa venire in mente Flaiano quando diceva che il vero ignorante è quello che si consola pensando che tanto studierà il figlio. 
Non lo farò perché non ho mezzi di alcun genere per farlo, ma se fosse possibile raccontare l'Italia di oggi, se fosse possibile farlo senza retorica, senza auto elogi o auto denigrazioni, partirei dagli uomini che sono rimasti impigliati tra le reti. I falliti, i vinti, gli sconfitti. Non gli invisibili della retorica populista Mediaset, ma la schiera interminabile dei Mario Rossi in bancarotta esistenziale. Gente che non ce l'ha fatta, che si è arresa. Gente che ha perso e non si è rialzata. Gente sopravvissuta a se stessa. Gente che non ha smesso quando ha voluto. Gente che è andata a sbrendolo insieme a un paese intero, a una cultura intera. Non so se il paragone con i vinti di Verga sia adatto, ciascuno giudichi come vuole. 
Forse il paragone più giusto è un altro: il ragionier Fantozzi. Specie in quella sua frase drammatica e vera insieme: 
« ...Io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande "perditore" di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto - dico otto! - campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d'acquisto della lira, fiducia in chi mi governa... e la testa, per un mostro e per una donna come te. »
Veramente, non crediamo alla retorica del guerriero, perché se continuiamo a raccontarci di mitici recuperi e di grandi rimonte, se continuiamo cioè ad appoggiarci ad una simbologia calvinista che non è nostra, non andremo da nessuna parte. E' il ragioner Ugo il nostro referente. Quello con la targhetta Fantozzi rag. Ugo, anche se oggi il ragioniere è stato sostituito da una triennale in marketing. Il racconto non potrebbe che partire da Ugo, non dai guerrieri sulla tangenziale di qualche squallida pubblicità. Non dalla volgare felicità americaneggiante che con noi c'entra meno di niente. Se c'è un dato comune tra Classicità e Cristianesimo sta proprio nella sostanziale inesistenza del termine felicità, perché non è quella la partita. 
La partita è lì, nel momento della perdita. Gli uomini impigliati tra le reti. Quelli che perdono, di cui nessuno si occupa. Quelli che non hanno grande talento, che non hanno grandi idee, che non erano brillanti a scuola. Che non vogliono fare in cantanti, che non sono ricercatori in fuga all'estero, che non saprebbero nemmeno come fare per andarsene da questo paese. Che hanno smesso da un pezzo di credere alla paccottiglia dei sogni nel cassetto e a tutto questo ciarpame televisivo che ha inquinato le menti più insospettabili. Gli uomini impigliati nelle reti come l'ossatura della società, che se non recuperiamo in qualche modo, magari anche solo certificandone l'esistenza e la dignità, si sgretolerà come terracotta. Perso il senso di comunità, e quindi di società non restano che tanti esseri impauriti che si raccontano di essere guerrieri. Ma non è così, e questo spavento senza fine si annida come un tarlo nei retropensieri di quasi tutti gli esseri pensanti. Fu la tanto magnificata Margaret Thatcher a rivelare al mondo intero che per la politica conservatrice (che domina il mondo da decenni) "Una cosa come la società non esiste". Quindi la retorica del guerriero, la fraseologia bellica, lo slogan aziendale, hanno una precisa origine: il conservatorismo politico. 
Scrive Zygmunt Bauman: "I politici di ogni colore dicono chiaro e tondo che, data la forte richiesta di competitività, efficienza e flessibilità, non possiamo più permetterci reti di sicurezza collettive". 
Lo sfracello collettivo non è stato causato dagli uomini feriti, ma dai combattenti da pic nic, e da tutta la schiera di uomini senza mente che hanno pensato bene di credere alla pubblicità. 
Quindi Fantozzi. Per capire, per capirci. Fantozzi con i suoi "Servili auguri per un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo", Fantozzi con l'elegante visiera verde con la scritta Casinò Municipale di Saint Vincent. 
Ecco, se mai dovessi girare questo documentario partirei proprio da chi ha rischiato e ha perso tutto. Da chi non ha rischiato e ha perso comunque. Ma senza finali rocamboleschi: la gente di solito perde in silenzio, qualche volta nemmeno se ne accorge, perché non è un tiro a freccette. Perdi, e non lo sai, o se lo sai non sai il perché. Sei al palo, e basta. Non puoi appellarti a nulla, nemmeno al fatto che in questo paese non c'è meritocrazia, perché tu non meriti niente. Sei caduto e non ti sei rialzato. La fortuna non ti ha aiutato perché non sei stato audace. 
Ma senza il ricircolo di tutte le forze, anche di quelle a perdere che ripeto sono la maggioranza, non ci sarà possibilità di dignità. Non parliamo più di ricchezza o di benessere, parliamo di dignità. Non parliamo nemmeno di solidarietà, che è solo carità e coscienza sedata, parliamo di comunità. Parliamone prima che sia troppo tardi.

stop

IL BLOG E' CHIUSO FINO A DATA INDEFINITA.

GRAZIE.

A.T. 

un uomo chiamato Blatter

Secondo l'indefinibile Blatter, il calcio viene prima. Prima della povertà, prima di un popolo in lotta contro lo spreco di denaro pubblico. Prima, insomma, della realtà. E il bello è che nelle parole del vecchio padre padrone del calcio mondiale non c'è nessun tentativo di paradosso, nessuna provocazione: è davvero il suo pensiero. Il pensiero di uno dei tanti privilegiati eletti da nessuno aggrappati con i denti alla poltrona che ormai non hanno più nessun titolo per occupare. Un pensiero che nella senilità ormai avanzata lascia intravedere, come spesso accade, un infantilismo di ritorno, ma nell'istantanea deforme e indecente di una parodia. E allora la frase folle e bellamente irresponsabile di un anziano potente serve anche a gettare una luce sulla fitta trama di poteri che si intrecciano e si sostengono a vicenda nelle varie politiche mondiali. Economia, finanza, industria, ma anche calcio a quanto pare, che sotto la sua veste puerile e innocua nasconde la sintesi perfetta di tutte e tre le cose: economia, finanza, industria. Il calcio, e in senso lato lo sport se pensiamo al grande baraccone olimpico, rappresenta una delle grosse pedine dello scacchiere politico/affaristico di questo scorcio di epoca: un veicolo dal volto friendly che serve per fare altro. Blatter con i suoi modi disinvolti e la sua certezza di impunità, non fa che esercitare un potere, e lo fa nell'unico modo in cui il potere sa manifestarsi: in modo arrogante e anarchico. Ora si dice che Blatter, al pari degli altri vertici del calcio mondiale, sia fuori dal mondo, fuori dalla realtà, fatto probabilmente vero. Ma l'anziano manager non è certo più fuori dal mondo di tutti i papaveri dello sport che giusto un annetto fa si facevano promotori della candidatura italiana alle Olimpiadi, candidatura poi fortunatamente cassata dal governo Monti, che di fatto ha scongiurato un bagno di sangue finanziario e un grasso banchetto per la speculazione malavitosa. Essere fuori dal mondo è un privilegio di chi il mondo non è costretto a frequentarlo, di chi può permettersi di fare finta che la miseria e le diseguaglianze sociali esistano solo nelle raccolte fondi e nella carità organizzata. Di quella ristretta percentuale che può ancora contare su una liquidità spropositata anche in tempi di sprofondo come questi. Una ristretta percentuale che può permettersi di tenere in piedi un circo abnorme finanziandolo con quei soldi che tutti ci stavamo domandando dove fossero finiti.

dopo il fumo

C'era una volta B. Non bello, non colto, senza particolari competenze, ma grande istrione, grande improvvisatore e soprattutto grande venditore. Osannato come leader carismatico (mah...), addirittura indicato come l'iniziatore di un nuovo corso politico: quello dei partiti padronali. (Ricordo con terrore due sue amazzoni che non più tardi di tre o quattro anni fa si beavano in un talk show di come il loro capo fosse all'avanguardia in questo senso).  E così, con tanto fumo, l'intrepido imprenditore è riuscito a mettersi in tasca prima la destra italiana e poi tutto il paese. Distruggendo entrambe le cose. E ora che la polverina magica è finita, ora che le bugie sono andate a sbrendolo, il fumo si dirada, e scopriamo che non c'era niente. Niente ricchezza, niente novità. Solo un cumulo di fanfaluche, e tanta insipienza, quando non qualcosa di peggio. E ora fa quasi tristezza sentire i suoi lamentarsi - con non si capisce bene chi - che i voti li prendeva solo lui, B, e che questo spiega la disfatta del voto amministrativo. Pare a tratti che la destra italiana sia sul punto di riconoscere lo sbaraglio, ma è un'impressione fugace prima del solito arroccamento: servirebbe onestà intellettuale. Ma ormai i circolo vizioso è una trappola da cui questa destra non potrà più uscire, a meno di non riscriversi culturalmente e di buttare a mare tutte, ma proprio tutte, le scemenze di questi ultimi vent'anni. Dopo anni di scorciatoie, di miracoli e di altra fuffa variamente declinata, forse sarebbe ora di prendere il coraggio a due mani e cominciare da un semplice vocabolo: scusateci. Per poi ripartire da due o tre libri seri che non siano il prontuario Fininvest o altre carte protocollate dalle scuole televisive. Questa destra scoprirebbe che i partiti, anche di destra, non sono un affare personale, e che la politica non è la vinavil con cui il padrone incolla i cocci della sua disastrata esistenza. Ma bisognerà fare un po' di cose prima, e tutte agli antipodi della mentalità berlusconiana: farsi un po' di cultura, mettersi intorno a un tavolo a sviluppare delle idee serie e non i soliti slogan. Ma temo che il massimo che verrà fuori da questa attuale classe dirigente sarà il cambio del nome del partito. E l'hanno pure già fatto una volta. 

Voto Arjen Robben


Voto Robben perché non ha una triste storia alle spalle, e se ce l'ha non è andato a raccontarla a Roberto Saviano.
Voto Robben perché ha il fisico da calciatore, non da cavallo da monta. 
Voto Robben perché non è ambidestro.
Voto Robben perché non ha la media di un goal a partita.
Voto Robben perché non gioca in un campionato dove il capocannoniere segna 50 reti (e ditemi voi quanto può valere un campionato così).
Voto Robben perché non è un "I belong to Jesus". 
Voto Robben perché sa cosa significa perdere.
Voto Robben perché nonostante tutto lo massacrano di fischi.
Voto Robben perché non ama le cose semplici.
Voto Robben perché non lo candidano al Nobel per la pace. Nemmeno per provocazione.
Voto Robben perché ha un'onesta chierica.
Voto Robben perché non ha tatuaggi.
Voto Robben perché non fa la pubblicità dei Pavesini.
Voto Robben perché corre a 32 km/h senza tante scene.
Voto Robben perché quando segna non si toglie la maglia per far vedere gli addominali.
Voto Robben perché non scommette.
Voto Robben perché non si tira i calzettoni sopra alle ginocchia.
Voto Robben perché non piace ai giornalisti.
Voto Robben perché non convoca conferenze stampa. 
Voto Robben perché non è "l'erede di Maradona". 
Voto Robben perché non gioca a fare l'"esempio" in un mondo che è pieno di esempi edificanti e dove tuttavia va tutto alla malora.
Voto Robben perché in finale di Champion's ha segnato un goal così raffinato e così difficile che quasi nessuno l'ha capito.
Voto Robben perché li mette sempre nel sacco con la stessa finta, il che significa che non è mai la stessa finta. 
Voto Robben perché guardate la foto sopra. 

operazione anestesia

L'operazione anestesia promossa da uno dei governi più improbabili della storia della Repubblica procede alla grande. Il lento ricomporsi della politica nella formazione plumbea che oggi abbiamo al comando ha finora ottenuto un unico risultato: quello di allontanare gli elettori. Non più soltanto per schifo, ma proprio per sfinimento. Il grande compromesso che ha tolto qualsiasi significato al voto del cittadino ha rappresentato qualcosa di più di una promessa disattesa. E' stata un'azione ipocrita, ma in perfetta linea con una concezione statale che ha sempre vissuto il potere come la gestione sparagnina e clientelare dell'interesse pubblico, la politica del manuale Cencelli, il solito gattopardesco "che tutto cambi perché nulla cambi". E così, con un po' di tempo e di pazienza, e soprattutto con la fidata scorta di larga parte dei media, si può accomodare tutto, anche l'incongruo: l'abbraccio mortale del Pd con il Pdl, lo scandalo dei voti di centrosinistra dirottati verso la destra più invisa, e il contemporaneo sdoganamento dell'uomo che più ha fatto per logorare le fondamenta della Repubblica. Tutto digerito, tutto metabolizzato. E pazienza se il governo in carica è strutturalmente impossibilitato a fare alcunché di incisivo, in quanto nato sotto lo scacco di forze uguali ed opposte. Intanto, ripeto, il primo risultato importante l'ha già ottenuto: quello di annacquare quel poco di fermento che andava agitandosi nella società civile. Un piccolo refolo di indignazione, di risveglio delle coscienze che rischiava di turbare i sonni dei grandi manovratori, artefici massimi di quel patto non scritto e non detto che vuole sempre una specie di bilanciamento permanente delle parti. Ed è un peccato, perché l'elettorato del Pd che non è così, ma è in genere meglio dei suoi rappresentanti, di sicuro una cosa ce l'aveva ben chiara: sapeva che cosa non voleva, il frutto avvelenato che puntualmente i suoi teorici rappresentanti eletti hanno realizzato, e nella maniera peggiore, con un colpo di mano. Il calo di affluenza alle urne è fisiologico: dopo quanto accaduto alle politiche, è chiaro che il voto è manipolabile. Insomma: votare non è una cosa seria. Sono le stesse massime cariche elette a dircelo. 

stasera paga lui


C'è una trama parallela dietro l'abbagliante squallore delle così dette cene eleganti. Al di là delle implicazioni giudiziarie. Ed è un insopportabile sentore di frivolo, di canzonetta scacciapensieri più che di orgia trimalcionesca. Perché se il problema giudiziario è stabilire il confine tra lecito e illecito sessuale, la questione politica, morale e civile è di altro grado, ed è capire se oggi l'Italia ha abbastanza rispetto di se stessa da non accettare più gli umori padronali di un monarca assoluto. Non parlo solo di Berlusconi e della sua corte, ma di qualsiasi Padrone con qualsiasi codazzo di dignitari. Lo dico subito, secondo me la risposta è no. Una maggioranza relativa molto rumorosa ha decretato che le cose vanno bene così. E che oggi, in Italia, la rappresentazione del potere nella sua veste più volgare e scadente è perfettamente possibile e sopportabile, perché in costante sintonia con i sogni, le aspirazioni e in generale l'umore di gran parte del paese. L'uomo ricco e potente di stampo rinascimentale (ma non solo, anche in anni più recenti) oltre agli stravizi, era solito coltivare la frequentazione di scienziati, artisti, intellettuali. Erano occasioni di incontro che avevano ricadute sulle scelte politiche e in generale sulla vita dei cittadini. Il denaro e il potere cioè avevano uno scopo che andava oltre il denaro e il potere stessi. La vera rivoluzione berlusconiana sta proprio nell'aver inteso il denaro come qualcosa che in fondo non porta a nulla, se non alla conservazione pura e semplice del vizio come categoria esistenziale. Per paradosso, i soldi di Berlusconi non servono a niente. Le sue aziende, nel momento stesso in cui la stampella della politica scricchiola, sono sempre sul punto di dissolversi. Le scelte politiche della sua amministrazione, a guardare con distacco, sono sempre state puerili, insufficienti, o apertamente ridicole. Lo spessore, se così si può dire, se lo sono costruito attraverso la reiterazione del messaggio a mezzo televisivo, sia diretto (con le reti di proprietà), sia indiretto, con la dialettica tautologica delle tribune politiche. E se per un attimo si prova a intravedere un nesso tra la cena elegante e la politica che le fa da corrispettivo, si getterà lo sguardo su un puro vuoto che in definitiva non chiede altro che spazio; un vuoto coerente, che da trent'anni non fa che ripetere le stesse identiche cose: poche, semplici parole d'ordine che hanno avuto come unica missione quella di rimuovere la realtà sostituendola con la sua parodia. E la cena elegante, persino nella sua versione annacquata e bonaria, si presenta come la sintetica, plastica rappresentazione di questo allucinante sistema di potere. 

il papi della Patria



La nomina di B quale presidente di questa nuova, fantomatica commissione sulle riforme costituzionali non mi sembra poi così folle. Almeno non in un sistema politico alla rovescia come quello in cui viviamo. Chi più di lui può dirsi padre di questa patria? Chi più di lui può dire di averla plasmata, identificata, portata alla luce nei suoi recessi più inconfessabili? Ha sdoganato l'indicibile, ha incarnato se non proprio inverato tutta la surreale sguaiataggine del sogno italiano, il sogno del furbo, del gradasso che la spunta sempre. Il sogno dell'impunito gaudente tutto fumo e apparenza, dei soldi come sintesi di ogni valore e del potere disinvolto che nasconde la faccia feroce dietro i modi affabili e le canzonette da crociera. Ed è suggestivo e malinconico insieme che questo sogno, nel giro di vent'anni, sia diventato un incubo sia per chi lo ha sempre avversato sia per chi ci ha creduto e ancora ci crede. 
Dunque, perché negargli questa presidenza? Ieri ha detto che scherzava, il burlone, ma domani potrebbe ripensarci, e dire che gli spetta, tanto le parole non hanno mai avuto senso per lui. O ce l'hanno avuto solo nella misura in cui possedevano un potere persuasivo, di pura televendita. Le vesti stracciate di questa sinistra che si è rivelata la sua migliore alleata, francamente, non contano più nulla. Ma, ripeto, sono dettagli privi di importanza: questa presidenza se l'è proprio meritata, diamogliela, lasciamogli completare l'affondamento, che tanto di riffa o di raffa Lui c'è sempre, prende sempre carrettate di voti, e anche quando ne prende di meno alla fine un accordo si trova sempre. In piena democrazia, ovvio. E allora sotto con le commissioni: togliamola di mezzo questa Costituzione, diamogli carta bianca. Tanto del conflitto d'interessi chi se ne frega, delle politiche personalistiche che hanno affossato l'Italia idem. Cassiamo tutto: processi, cene eleganti, stallieri. Azzeriamo il conto, che tanto qui non ne usciamo più, diamogli l'immunità, un maxi finanziamento pubblico per le aziende di famiglia, e già che ci siamo anche il potere temporale e l'infallibilità ex cathedra. Che tanto, è per davvero il padre di questa patria: è il suo campione più attendibile e più rappresentativo, l'uomo più votato degli ultimi vent'anni e mica per scherzo. Sia fatta democrazia dunque: hai vinto. Solo una richiesta: sparisci per un po' dalla circolazione, prenditi una vacanza senza telecamere al seguito, ordina alle tue falangi di non nominarti per qualche giorno. Un po' di disintossicazione, credimi, farà bene a tutti. 

la democrazia del fatto compiuto


C'è un mistero, che in questi giorni non sono ancora riuscito a chiarire: perché si debba dimettere un segretario di partito votato da tre milioni di cittadini alle primarie e il suo vice votato da nessuno debba diventare Presidente del Consiglio. Vice che tra l'altro si era dimesso in seguito alla debacle quirinalesca di pochi giorni fa, e nella quale un qualche grado di responsabilità, in quanto vice, ce l'avrà pure avuto. Questo è il primo mistero. Il secondo è come sia possibile che il voto di un elettore del Pd sia servito per nominare dei ministri della parte politica antitetica alla sua. Se poi vogliamo chiamare questo pateracchio democrazia, facciamo pure. Se poi siamo disposti ad unirci al giubilo compatto di tanta stampa per l'avvenuto inciucio, fiat voluntas vestra, a patto che nessuno si illuda di aver votato per una qualche ragione. Io per primo, pur avendo sempre sostenuto la necessità del voto come l'ultima arma a disposizione per dire qualcosa in un paese dove solo i furbi, i raccomandati e gli urlatori hanno una qualche possibilità di essere ascoltati. Certo diventa un po' complicato avere fiducia in una democrazia del fatto compiuto, dove i governi, le politiche, i presidenti se li fanno e se li disfano con misteriose riunioni notturne, dove tre o quattro decidono in base a criteri che giuro mi sfuggono e chi s'è visto s'è visto. Molto alla Grillo pensare tutto questo, lo so. O forse no. Nel senso che tanti, come me, non giocano allo sfascio sperando  nel disastro che garantirebbe il cinquanta percento dei voti. E nemmeno sognano parlamenti eterodiretti o deputati sotto il diktat delle segreterie e giudicano le profezie di Casaleggio delle fesserie, o peggio ancora delle televendite (o internet vendite) che sostituiscono il principio di realtà con il suo avatar dove tutto è possibile basta ignorare l'esistente. Solo appartengo alla schiera di quelli che chiederebbero una mediazione, non tanto politica se proprio non si può, quanto intellettuale: un parlamento dove il voto corrispondesse grossomodo alle idee degli elettori che lo esprimono, e non un miscuglio di vero vecchio e finto nuovo dove alla fine i governi si fanno a tavolino, e le necessità da tutelare non sono quelle dei cittadini ma quelle di Berlusconi. Un parlamento che soprattutto fosse il corrispettivo politico della società onesta, e non, guarda caso, l'equivalente generale di banche e consorzi di miliardari, che vai a capire com'è sbucano sempre non appena si gratta via la patina illusoria della gioventù e del nuovo. Due categorie rifugio che sono state usate dal Potere - abilmente, va detto - per garantirsi la continuità in perfetta similitudine con il disastroso passato e al tempo stesso per assicurarsi l'appoggio mediatico di un'informazione che salvo qualche caso non chiede altro che conformarsi alla legge del più forte. 

finale di partito

E' una storia italiana questa a cui stiamo assistendo. Una storia di fantasmi e di traditori, di padroni e di ipocriti. La storia di un partito, il Partito Democratico, che ha decretato mestamente la fine della sinistra rappresentativa, ingoiata da un vuoto di valori e di prospettive che lascia sgomenti, sia per le proporzioni abnormi, sia per l'arroganza con cui questo vuoto è stato in qualche modo rivendicato dalle dichiarazioni tronfie e sconcertanti del dopo voto. “Abbiamo salvato la patria” mi è toccato sentire, dopo la tre giorni più umiliante che la sinistra italiana abbia mai vissuto nella sua lunga e non sempre facile storia.


Come dire: i quadri dirigenti del partito danno l'idea di non aver capito niente di quanto accaduto. Delle conseguenze che il loro operato – lontano, in molti casi apertamente contrario alla volontà della base – avrà sulla vita politica e istituzionale di questo paese.
Il risultato claudicante delle elezioni dopo una campagna elettorale troppo statica, il rimpiattino durato due mesi, la decisione incomprensibile e per certi aspetti pazza di riesumare Franco Marini come prima scelta per il Quirinale, il lancio, a frittata fatta, di un Prodi subito impallinato da quella stessa assemblea che poche ore prima lo aveva acclamato, sono solo i sintomi di una malattia che sta più a monte, più in là nel tempo, nei ridotti di una disputa interna e spesso personale che ha lasciato fuori dalla porta il contatto con il paese reale.
La sinistra italiana ha scelto la sua fine. L'ha scelta nel momento in cui ha pensato di potersi accreditare come forza maggioritaria senza tenere conto della gente che la votava. Ha cominciato a perdere quando ha rinunciato ai punti di forza che storicamente sono della sinistra: tutela dello stato sociale, diritti, lavoro, solidarietà, legalità. E ha continuato a perdere, fino a questo schianto finale, dicendo no alla candidatura di Stefano Rodotà, la ciambella di salvataggio lanciata da M5S che avrebbe consentito di sbloccare la situazione politica in tre modi: eleggendo un Presidente della Repubblica, lasciando aperta la concreta possibilità di un governo insieme e mettendo all'angolo l'uomo che è la plastica antitesi di ogni istanza legalitaria e sociale, Silvio Berlusconi.
Il sospetto, che pesa come un macigno, è che la strategia scombiccherata e suicida di questo partito sia sempre stata quella dell'inciucio. Come se il passato non avesse insegnato niente, e come se la stragrande maggioranza degli italiani non considerasse il compromesso con Berluscònia il peggiore dei mali. La morte, civile, politica e persino intellettuale della gauche. Una sinistra che, da vent'anni a questa parte, non ha fatto che vergognarsi di se stessa, perpetuandosi nell'orgia del potere attraverso la sostanziale accettazione del berlusconismo non solo come referente politico, ma, a seconda, come spalla, contraltare, complice, sparring partner, nemico fittizio. E ora che i cocci sono per terra, ci si ritrova con dei quadri dirigenti che a caldo non sono nemmeno capaci di ammettere lo sbaraglio, provare un po' di imbarazzo per la svendita della loro storia e della loro cultura.


Va da sé che la rielezione di Giorgio Napolitano, sulla cui persona non c'è nulla da eccepire, è una sconfitta mascherata da pareggio, e il nostro Presidente, da uomo saggio e navigato, è il primo a saperlo. Il rinnovo del mandato presidenziale ad un uomo di 88 anni che non chiedeva altro che ritirarsi certifica la liquefazione dei partiti come esponenti della democrazia. Certifica l'impotenza, l'incapacità, la mancanza di coraggio dei partiti di prendersi la responsabilità (e scusatemi se uso questo termine tanto abusato) di una scelta decisiva. Hanno scelto di non scegliere.
I paesaggi che si offrono ora sono quantomai nebulosi, e perlopiù desolanti. Un governo del Presidente, si dice: un governo cioè sotto la diretta influenza del Capo dello Stato, al di là dei poteri che la Costituzione in questo momento sancisce in modo ufficiale. Del resto, è un anno e mezzo che Napolitano aveva allargato la propria sfera di competenze fino a dirigere in modo sempre più evidente le mosse del governo. Preludio ad una Repubblica presidenziale? Nessuno può dirlo. Stravolgere la Costituzione sull'onda dei dissesti emotivi di questi tempi potrebbe essere un rischio; primo perché le riforme non si fanno a furor di popolo, secondo perché stavolta siamo stati fortunati ad avere tanto potere concentrato nelle mani di una persona come Napolitano, ma casomai la gente impazzisse (ogni tanto è provato dalla storia che lo fa) e consegnasse le chiavi di casa in mano alla persona sbagliata? Il controbilanciamento dei poteri ha un significato, come abbiamo avuto modo di verificare durante la fatiscenza dell'esperienza berlusconiana, già dimenticata dalla memoria collettiva e dalle nostre proverbiali amnesie mediatiche (chissà perché eh?).
Non sono mai stato tenero con il M5S, ma stavolta va detto che una mossa in direzione della sinistra era stata fatta. E la sensazione, purtroppo, è che il Pd abbia preso in giro i suoi elettori, inscenando una trattativa fasulla con i 5 stelle mentre sull'altro tavolo negoziava con il Pdl la vera spartizione del potere, in spregio a militanti ed elettori.
E' chiaro che con questa classe dirigente, la sinistra italiana non andrà mai da nessuna parte. Lo diceva Nanni Moretti nel lontano 2002, e con una punta di sarcasmo, siamo costretti, oggi, a prendere atto che la nomenclatura responsabile di questo disastro è sempre la stessa. Inamovibile.
Ed è su questa base che si consuma la scissione tra il Pd parlamentare e la base elettorale: dopo la pagina nera delle elezioni presidenziali l'attuale gruppo dirigente del Partito Democratico ha di fatto stracciato il patto di fiducia con i sostenitori del partito, mettendo in discussione, da un punto di vista politico ma anche morale, la legittimità a gestire il potere in nome dei cittadini. Un nodo cruciale, che in quanto tale verrà presto derubricato a bagattella da supercazzola, l'unica, vera, grande strategia che i quadri dirigenti hanno sempre saputo sfoderare con maestria.


Ed è un crimine. Perché se non esistono più dei politici di sinistra, esiste un popolo di sinistra. Esiste il bisogno di un'etica pubblica che non sia solo la facciata ipocrita del papista che va a mignotte. Esiste la ricerca di una coesistenza civile con alcuni punti cardine, quali per esempio diritti, doveri, lavoro, legalità, vita, morte. Esiste una fetta di cittadinanza che avverte ancora il proprio paese come un bene, e non solo come una vacca da spolpare, dove “prima la mia famiglia, prima io e gli altri si fottano”. Beh, se la sinistra politica non si decide a dare una voce, un corpo e soprattutto un'azione a queste istanze, il paese fatalmente, inesorabilmente e forse anche giustamente andrà alla malora una volta per tutte.
Non resta che prendere atto di una cosa, molto semplice: le due anime del Pd – post comunista e democristiana – non hanno mai trovato una sintesi, se non nel brodino tiepido che non ha mai avuto il coraggio di fare azioni concrete contro il conflitto di interessi e contro lo smantellamento dello stato sociale.
Dopo gli ultimi giorni tutte le stranezze, le debolezze, le opacità del Pd hanno trovato una risposta. Quella che in molti sospettavano. Quella che fa male anche solo pensare.   

eterno presente

E' il bello di questo paese, in fondo, il fatto che tutto è sempre uguale, anche nelle crisi più nere: rimane sempre una patina di risaputo, di già detto. E' come se il film di questa crisi lo percepissimo già a livello inconscio, come se questa storiella l'avessimo già sentita, ma chissà dove, chissà come. Intanto il dibattito è assorbito dal dilemma della presidenza della Repubblica, per il resto si vedrà. I tecnici non ne hanno azzeccata mezza, i politici sono ancora lì, il nuovo che avanza più che avanzare traccheggia alla ricerca di una dimensione o forse di un senso che tarda a materializzarsi, vuoi perché il risultato elettorale è stato fin troppo largo vuoi perché il programma cinquestellato, una volta entrato nelle secche della realtà, si è arenato, come tutto il resto. E mi viene voglia di ricordare il compianto Edmondo Berselli, quando citava Arbasino ed esibiva la sacra teoria del "solito stronzo", una grande promessa tradita, che una volta finita la gioventù diventa come tutti gli altri, come tutto il resto, appunto. Ma in questa metafora c'è anche qualcosa di più: la tendenza italiana a non cambiare mai. A non voler cambiare. A rimanere prigionieri di un eterno presente senza memoria e senza futuro, le due categorie scomode per eccellenza (sono le più faticose) che la febbre berlusconiana degli ultimi trent'anni (conto anche il grande sabba televisivo) ha provveduto a cancellare, donando ai teleutenti elettori il frutto avvelenato di un qui e ora che non finisce mai. Quindi il mondo fuori bussa. Falliscono un migliaio di aziende al giorno. Decine di migliaia di licenziati, al giorno. Eppure la bolla che preserva il grosso della società italiana resiste, anche ora che il viatico usuale delle grandi manovre italiane - l'Emergenza - è assurto allo stato permanente effettivo. Era emergenza prima o è emergenza adesso? Che faremo? A mo' di mistero teologico la politica italiana si pone come interrogativo senza risposta, come grande totem muto, un orologio rotto e senza lancette che ha rinunciato a segnare l'ora. 

il periodo del dubbio


Legalità e lavoro sono argomenti che non tirano. Argomenti che non solleticano il grande pubblico. Mettersi a fare un discorso serio, posato, molto pratico su cosa fare da qui ai prossimi dodici mesi per uscire dal pantano è un'ipotesi che ha pochissimo appeal. Meglio qualche biglietto sonante per la restituzione dell'Imu, o qualche parolaccia così, che non si sa mai. E' un approccio poco scientifico, lo so, ma basta ascoltare le voci che circolano, gli umori che si captano in giro, per strada, per capire che qualsiasi politica del buon senso e dell'onestà praticata e non esibita è destinata a prendere pochi voti. Qualsiasi discorso che preveda il rispetto della Costituzione e delle regole, dei diritti della persona e della giustizia sociale non fa presa. E' una bella contraddizione il popolo che volta le spalle a se stesso; il popolo che si suicida svendendosi a quello che urla di più, o a quello che sa illudere meglio. Un popolo, una cittadinanza cioè, che preferisce credere al miracolo piuttosto che fare la fatica di pensare al di là della promessa immediata. E infatti la rivoluzione, come sempre in Italia, è sfociata da un lato nella demagogia dai lampi autoritari dei Cinquestelle e dall'altro nella solita paccottiglia berlusconiana, quando invece, forse, l'unica rivoluzione possibile è quella del lavoro metro su metro, nel rispetto di regole condivise e nella convinzione che solo uniti e con grande fatica sia possibile uscirne. E a sentire e vedere l'Italia smarrita e finta furba di queste settimane, mi viene da pensare che l'unica vera utopia sia proprio questa, molto più delle bugie populiste e del catarismo a costo zero che hanno spopolato alle ultime elezioni. Tutto va a rotoli, ma tanti, veramente tanti italiani vogliono continuare a pensare solo in termini personalistici, continuando sia a sguazzare nella cecità morale della peggiore destra, sia giocando al massacro con i resti della Repubblica. E in conclusione mi chiedo quale possa essere la morale, quale possa essere la via d'uscita se le premesse sono così confuse. Adda passa' 'a nuttata, ancora una volta. 

ferro Battiato

Malinconica uscita di scena dalla politica per Franco Battiato, in seguito al suo disastroso scivolone in diretta da Bruxelles, con una frase molto volgare e qualunquista, che niente ha a che vedere con il profilo colto ed elegante della carriera artistica del cantautore. Il fattaccio spiega a modo suo almeno due cose: la prima è che un artista non deve occupare posti di potere, veri o simbolici che siano, perché finisce sempre per fare qualcosa che non va, per sognare un sogno troppo alto o, come nel caso di Battiato, per incartarsi in una lettura populista e generica della realtà. La seconda offre qualche spunto di riflessione sull'impatto del grillismo nel dibattito pubblico: la parolaccia come scorciatoia retorica, l'insulto globale totale, la divisione manichea tra un "noi" buono e un "voi" male assoluto. Il grillismo come artificio che assolve la barbarie anarcoide e addossa colpe e orrori ad un "altro" inteso come categoria antropologica, è un modello politico destinato ad avere successo. Perché è molto italiano. Forse questo è un modo per spiegare come mai Battiato ha smesso le vesti del raffinato musicista per indossare i panni non suoi del politico cincischiato e pasticcione. Perché non è Franco Battiato quello che offende le istituzioni e gli italiani con parolacce da bar, ma il suo avatar catapultato a casaccio in politica: un mascheramento (uno sdoppiamento) che produce gli esiti miserrimi dell'ormai famigerata conferenza stampa. Lo stampo di questo mascheramento è puro Grillo. Il Qualunque che diventa la mascherina di un Batman da osteria che se la prende con tutto e tutti senza avere l'onestà del discernimento, è un marchio già depositato dall'ex comico, fautore di un'azione politica basata da un lato sulla regola del no, dall'altro sull'autoinvestitura a censore per conto del popolo. Tutto il popolo. Quel 100% totalitario che è la meta dichiarata dell'avventura cinquestellata. Dispiace che anche Battiato sia caduto in questa trappola. Anche lui credeva di parlare per conto del popolo, anche quando l'ha offeso a sangue. 

costruire l'amico

Gli innamoramenti giornalistici sono un fenomeno paraletterario di primo livello. Quando la stampa italiana, ma non solo, decide di amare un personaggio, una moda, un fenomeno, è in grado di mobilitare un contingente di forze che non ha uguali nel panorama mediatico (e non solo). Ora è toccato al Papa, assurto, nel giro di cinque giorni, ad icona pop della bontà un tanto al chilo. Con tanto di stillicidio verbale, tipico della categoria: bontà, semplicità, povertà, parappappà. Costruire il nemico, diceva Eco, ma in qualche caso bisogna anche costruire l'amico: il mito, il depositario delle speranze. Ora, non è detto che un Papa debba essere per forza algido e distaccato, e non è nemmeno detto, come qualche dotto curiale ha sostenuto, che il papato sia importante in quanto tale a prescindere dai comportamenti soggettivi, ma da qui a far dire al Papa, e a qualsiasi altra figura pubblica di livello mondiale, quello che ameremmo sentirci dire, ce ne passa. O ce ne passerebbe, visto che l'opera di costruzione mediatica operata dalla stampa in questi giorni ha qualcosa di sbalorditivo e megalomane. Prima o poi Francesco dirà o farà qualcosa che andrà in controtendenza rispetto alle mode ideologiche dettate dal gossip à la page, e allora che succederà? D'altra parte è un Papa cattolico, è depositario dell'ortodossia della fede, non ci si può aspettare che soddisfi le brame libertarie del bel mondo, così, giusto per non deludere le aspettative personalistiche di questo o quel vip. Il cercare ad ogni colpo di tosse svolte epocali e momenti storici denuncia in modo prepotente l'ambivalenza etica di tanto giornalismo, che il giorno prima di muove compatto o quasi verso mete libertarie e anticlericali, e il giorno dopo - così, giusto perché l'attuale Papa riesce interessante in tv e dice in buona fede cose che fanno gioco alla malafede di certi commentatori - diventa alfiere dei valori cristiani con qualche punta di conservatorismo spinto. E in questo flusso di considerazioni senza senso, di sondaggi, di opinioni qualunque, la parola si diluisce, perde di consistenza, e diventa rumore senza alcuna restituzione simbolica: la parola come residuo, detrito di un processo di significazione montato sul nulla di una campagna mediatica priva di riscontri. C'è un Papa che non è ancora entrato nel vivo del suo lavoro, e c'è il suo eidola montato dalla fantasia paraletteraria del giornalismo di massa: due facce che non sono complementari, ma contrapposte, come la realtà e la sua rappresentazione autoprodotta. 

collasso democratico

Dal punto di vista iconografico, la massa di deputati Pdl assiepata sulla scalinata del Palazzo di Giustizia rappresenta uno dei minimi storici repubblicani; un equivoco in termini dialettici e pratici. Gli onorevoli appena eletti si presentano al capezzale simbolico del padrone, quel Palazzo dove l'eminenza consuma il suo ultimo lembo di esperienza reale, quella che lo fa essere ancora un essere umano e un cittadino, in contrapposizione alla fantasia sfrenata e sadiana in cui la sua figura ormai è prigioniera da tempo. Non si capisce bene per che cosa o per chi manifestino questi signori con bandiera italiana e inno bestemmiato in un canto che dire incongruo è dire poco. La sensazione è che non lo sappiano nemmeno loro. Potremmo chiamarla manifestazione per il collirio, sit in per la difesa della berlusconità, mobilitazione in difesa del diritto di marcare visita, lotta per la congiuntiva. Ci sarebbe da ridere se non fosse che da ridere non c'è più niente, e l'agitare lo spettro della libertà e del diritto, proprio da parte di quella falange politica che ha sempre infangato e disprezzato il diritto e la libertà degli altri, è solo il solito, squallido espediente, per difendere i privilegi di uno evocando la sicurezza di tutti. Ma questa destra berluscoide è al massimo in grado di difendere i relitti di se stessa immolandosi per la salvezza del suo declinante padrone politico. Lo strumento, è questa parodia di manifestazione, dove per un gioco strambo e vizioso, non è il popolo a manifestare per il popolo, ma un privilegiato manipolo di miracolati per la bella faccia di uno solo, il padre padrone padrino di un movimento che, checché ne dicano, di storico e democratico ha pochissimo. Ma il Pdl ha sempre avuto dalla sua una dote, grandissima: quella di usare come espediente retorico la tautologia ad un alto grado di sofisticazione. Pervertire la realtà, ribaltare i concetti, trasformare le accuse in controaccuse, ripetere la finzione in modo massivo e continuato in modo da renderla vera presso una parte dell'opinione pubblica, abituare la gente allo scandalo e al peggio in modo tale da anestetizzarla, anche per mezzo di una potenza di fuoco mediatica senza precedenti nell'Occidente democratico, sono stati i grimaldelli e le armi di scasso con cui questa stramba forma di potere si è conservata nel corso del tempo. Certo, ora il sistema mostra la corda, ma è ancora capace di irretire un buon trenta percento di elettorato, vittima o complice o entrambe le cose di questa tragica epopea chiamata berlusconismo. Ma la tautologia di fondo rimane: tutta la retorica di questo partito, dai suoi albori ad oggi, si è sempre basata sulla reiterazione del vuoto, e un partito che in tutti questi anni non ha mai fatto altro che produrre se stesso come generatore di consenso e basta, alla fine non può che ridursi a messinscene come quelle del Palazzo di Giustizia. Perché il partito salva se stesso non grazie ad un'idea, ma grazie al corpo del capo, che è l'elemento indispensabile per la propria sopravvivenza, sia politica che economica. E perché soprattutto generare consenso non significa generare anche senso. Nel mascheramento di questa assenza i vari portavoce, megafoni, pupazzi che si sono succeduti nel corso degli anni sono stati dei maestri: un profluvio di artifici simbolici e verbali che sono serviti da vera e propria cortina fumogena per occultare la mancanza strutturale di un progetto collettivo. 

Anatomia di un Movimento



Gli articoli riportati qui sopra erano presenti su un mio blog dei tempi andati, ormai defunto, insieme alla piattaforma che lo ospitava. Ho voluto ripubblicarli in modo che possano essere letti. Risalgono al 2007 e parlano tutti di Beppe Grillo e del suo movimento che ancora non si chiamava 5 Stelle. Mi interesso al fenomeno da tempo, da molto più tempo di tanti freschi eletti in parlamento. L'ho studiato, il Movimento, l'ho auscultato e l'ho quasi sempre difeso nelle sue prime fasi. Mi pareva avesse qualcosa da dire che andasse oltre il politichese tradizionale; che ponesse sul tavolo questioni delicate e ingiustamente ignorate dalla politica parlamentare. Insomma, avevo simpatia e quasi affetto per le idee che andavano sviluppandosi in quella fase ancora embrionale e indefinita, quando la stampa ufficiale alzava gli scudi e paventava sospetti e accuse di terrorismo. Ora la situazione mi pare radicalmente cambiata. Ci troviamo di fronte ad un movimentismo settario e intransigente, dove gli spaesati eletti (dagli elettori, non dai marziani) sembrano più gli aderenti ad una religione privata che non i rappresentati votati dai cittadini: è il nuovo brivido del grillismo. La democrazia autoriferita: è democratico quello che pensano lui e l'ineffabile Casaleggio, tutto il resto è inesistente, di più: è da abbattere. La presa di posizione di Grillo e soci è definibile come arrogante e autoritaria. L'aver strizzato l'occhio al fascismo antisistema (oltre alla faccenda Casa Pound, anche le dichiarazioni delle ultime ore) è solo un tassello che va componendo un quadro sempre più coerente. Non è una buffonata il M5S, perché i voti che ha preso sono veri, ma ha molti elementi buffoneschi, che la regia occulta in capo al movimento regola e dosa a proprio vantaggio. Le parole d'ordine, le adunate, il gusto di sentirsi migliori e illuminati sono solo gli elementi esteriori di un'operazione politica di puro calcolo, giocata sullo sfascio degli altri, e probabilmente anche sullo sfascio dell'Italia. Più va male, più il Movimento prende voti. Più va male più Grillo e Casaleggio avranno modo di manomettere la Costituzione senza che nessuno batta colpo, cosa che nemmeno al Berlusconi più arrogante e arrembante era riuscita. Stiamo attenti, perché è quello il bottino. La dialettica, in questo partito non partito, è azzerata. Ha le sue regole interne, i suoi meccanismi indecifrabili, ha i suoi due capi eletti da nessuno che agiscono come gli pare, e il popolo italiano sta seriamente pensando di dare a loro due le chiavi di casa. Cioè a un modello mattoide di oclocrazia dove le mediazioni parlamentari sono annullate e gli istinti della massa sono sobillati e modulati da una miscela micidiale di demagogia e populismo. Il tutto sulle macerie economiche e sociali di un paese intero. 

the day after

Le urne ci offrono un risultato che in fondo non sorprende. Quei numeri un po' pazzi che campeggiano sulle prime pagine dei giornali sono l'Italia, non vengono da Marte. Sono il ritratto di una società molto confusa e insofferente, questo sì; una società stanca e declinante che anziché cercare una soluzione nell'impegno e nella forza di una proposta ha preferito sparpagliarsi tra i poli opposti (ma comunicanti) dell'anarchismo fatto politica: Berlusconi e Grillo. 


Il risultato dell'ex comico (ma non candidato e quindi non eletto) non può stupire. Il suo consenso  si è sostanzialmente articolato su due fronti: uno di militanza e uno di semplice adesione. Nel primo caso c'è stata partecipazione attiva, volontariato, mobilitazione da parte della cittadinanza che crede veramente nel M5S; nel secondo caso, c'è l'elettore della domenica, quello che non sapeva per chi votare e alla fine ha sparato la sua cartuccia nella direzione della pura protesta. L'italiano medio del "sono tutti uguali" per dirla breve. L'italiano che non ha la più pallida idea di quale sia il programma di Grillo, che non è nemmeno avvezzo a internet, che non sa nulla sulle sue linee direttive in materia energetica, giudiziaria, economica. O forse una cosa la sa: la proposta più forte di Grillo è quella di uscire dall'euro. Non a caso, la pensata insieme più mattoide e populista. Che cosa ne farà del paese questa truppa di onesti cittadini catapultati nella Babele parlamentare non è ancora possibile saperlo. Che ruolo avrà Grillo con il suo guru Casaleggio, ancora non si sa. Due figure elette da nessuno che manovrano un parlamento eterodiretto? Non so se questa domanda se la siano posta i molti simpatizzanti. 


Il responso che però ferisce di più questa Repubblica è stata l'ennesima riesumazione berlusconiana. Forse bisognerebbe cominciare a parlare di mesmerizzazione o di qualche altra diavoleria alchemica. O forse bisognerebbe semplicemente prendere atto che una vastissima porzione di Italia condivide e sente sue le sgangherate ipotesi eversive e le pietose bugie di questo improbabile capo di governo. Il più raffazzonato, il meno colto. E' il lato brutto e squallido dell'anarchismo che in Grillo ha trovato una veste più moderna ed effervescente; la maschera funebre che fa paura all'Europa e al mondo, ma presso la quale tanti italiani nel segreto dell'urna (perché nei sondaggi, è un dato oggettivo, si vergognavano a dichiararlo) hanno trovato rifugio. Ed è un'Italia che, spiace dirlo, atterrisce e spaventa. Capace di bersi di tutto, di dimenticare tutto, di perdonare tutto e di fidarsi delle menzogne che il suo santone catodico ha sempre dispensato a piene mani, certo di non dover mai rendere conto di niente a nessuno. In Berlusconi la bugia ha cambiato sostanza. Citando a sproposito Hegel, una bugia è solo una volgare bugia, ma un sistema di menzogne abnorme, coadiuvato da un blocco informativo compiacente, cambia anche di qualità: diventa accettabile, reale. E quindi, razionale. 
Ora, non sono così ingenuo da dire che Berlusconi e Grillo siano la stessa cosa, ma la carica anarcoide, la scelta facile, il miracolo, il colpo risolutore e la sostanziale deresponsabilizzazione del cittadino che stanno alla base del voto a uno o all'altro sono quasi gli stessi. Anche se Grillo predica il contrario, catechizzando i suoi all'insegna dell'impegno individuale, nei fatti e nei vaneggiamenti li liscia, gli dice quello che vogliono sentirsi dire. E' un berlusconismo più aggiornato, più attento agli umori della rete, ma le tecniche di base per accalappiare gli elettori si assomigliano, l'abc della politica spettacolo è sempre lo stesso, così come analoga è l'inquietante attitudine all'azione autoriferita che entrambi i leader hanno. Il loro è un "io" o un "noi" che non conosce l'"altro". Che lo disprezza, che lo addita come nemico o che addirittura non lo riconosce. E la via di fuga, specie nel caso di Grillo, è quella di sottrarsi, con l'acrimoniosa accusa: "Non avete capito niente". 


All'opposto di questo marasma, stava un'opzione di scelte collegiali. Stava l'impegno senza effetti speciali. Stava il dividersi i compiti a partire dalle uniche due cose che in questo momento possono salvarci: la legalità e il lavoro. Stavano i sacrifici in nome di qualcosa. Stava la pazienza del mettersi d'accordo, perché la democrazia è una cosa difficile dove le bacchette magiche fanno disastri. E' il discorso del progressismo di respiro internazionale, che va da Obama in giù. Quel progressismo che tanti paesi del mondo hanno individuato come soluzione complessa ad una situazione complessa. Che richiede onestà, impegno, responsabilità, lavoro. Concetti che in Italia, in questo momento, fanno presa solo su una minoranza. 

il bivio

Gli italiani lottano contro una parte di loro stessi. Si lamentano, tanto, ma poi tornano a votare dalla parte delle lusinghe. Credono alle bugie che sanno essere bugie, e ci vorrebbe un grande clinico (o un plotone di luminari) per capire in che modo un popolo intero possa decidere di mettere in gioco se stesso al punto di scommettere tutto su una conclamata menzogna. E il sospetto che mi brucia le tempie è che in questa lotta intestina si consumi gran parte delle energie di questo paese. Perché non c'è la forza di costruire un progetto democratico basato sulle idee e non sulla parlantina di un personaggio? Pigrizia, faciloneria si potrebbe dire. Giorgio Bocca, negli ultimi anni di vita, constatava amaramente che la metà degli italiani è fondamentalmente fascista: una frase grave, che spero non corrisponda alla verità, ma su cui vale la pena di riflettere. Articolare un discorso democratico complesso, progressista, capace di mettersi in discussione, è un'operazione difficile, che richiede maturità, e un senso del bene pubblico molto sviluppato. Se l'apologia della tangente e il minimizzare la corruzione hanno appeal presso l'elettorato c'è di che preoccuparsi, a prescindere da chi vinca le elezioni e con quali maggioranze. Se il fascino dell'uomo forte con tanti poteri è capace di solleticare ancora la fantasia dei cittadini, significa che siamo molto indietro sulla strada della modernizzazione di questo paese. Già il fatto di avere così tanti partiti con il nome del leader nel simbolo, partiti senza storia che si impongono per la telegenia del loro capo, non lascia intravedere niente di buono per il futuro. Il berlusconismo, oltre che causa di tanto sfascio, è anche il sintomo di un male profondo, di un disagio che esorcizza se stesso nella sostanziale deresponsabilizzazione personale: che ci pensi un altro a comandarmi, un altro che mi dica sempre che va tutto bene. Nonostante tutto, in questa Italietta confusa dove anche la rabbia popolare è un'operetta inscenata in favor di telecamera negli ormai famigerati collegamenti con la Piazza, è sempre colpa di qualcun altro. 

la morte simbolica


Il balcone di San Pietro è vuoto. L'immagine è esatta, precisa. Nanni Moretti l'aveva vaticinata nel suo ultimo film, ma un film, come qualsiasi altra opera, altro non fa che captare lo spirito dei tempi. Un autore non tira i dadi, fiuta l'aria. E quel balcone, forse, era vuoto già da un po'. Il Padre, come simbolo, come entità, è stato divorato dai tempi, e quella finestra resta sospesa a mezz'aria, incerta. Che cosa si può dire? Come interpretare la vischiosità del presente? I dogmi si sono sbriciolati, e il brivido che oggi ci regala la Chiesa è quella del relativo, e ad offrircelo sul piatto è il Papa all'apparenza più conservatore e tradizionalista, quello che il relativismo l'ha sempre combattuto. Un Papa che dall'infallibilità è passato ad un umano, disarmante "non so più che fare". E' un gesto di dignità molto grande, quasi incomprensibile con i canoni dell'oggi, dove il sommo valore è l'attaccamento al potere e alle sue cerimonie. Ma questa decisione segna anche uno scarto netto, un prima e un dopo: per i fedeli è l'Incognita, per tutti un suono quasi assordante. Si ha un bel citare Celestino V e altri grandi rifiuti, la verità è che quasi nessuno ha sottomano i mezzi culturali per capire con esattezza che cosa è successo, per la semplice ragione che le implicazioni di questa scelta sono oscure e inedite, sia per premesse che per conseguenze. Il Papa che abdica è forse la fotografia di una civiltà orfana, di certo di una fase storica che ha esaurito il proprio alfabeto, e con esso la possibilità di interpretare il presente. Servono nuovi canoni, ma i linguaggi non nascono dall'oggi al domani, e un lutto simbolico, come in questo caso, può essere più doloroso e complicato di un lutto della carne. La morte porta compiutezza, la dimissione no. Andarsene è un diritto (lo diceva anche Baudelaire), ma andarsene significa anche lasciare spazi aperti, domande irrisolte, fatto normale in vite normali, eccezionale se a farsene carico è un Papa, per chi crede, Vicario di Cristo in Terra. Quel "non farcela" sottende un bisogno di collegialità e di condivisione che non ha precedenti nella storia; la fallibilità di un Papa è la fallibilità del mondo, inesatto e imperfetto per definizione. 

Modigliani all'asta


Uno dei ritratti dedicati da Modigliani a Jeanne Hebuterne è stato battuto all'asta da Christie's per la bellezza di 31 milioni di dollari. Fa un effetto straniante sentire certe cifre se rapportate alla miseria e alla precarietà in cui Modigliani lavorò tutta la (breve) vita. Non so se sia possibile trarne qualche lezione, ma di certo il rapporto spesso contraddittorio tra vita artistica e riconoscimento offre qualche motivo di riflessione, specie sulla totale sproporzione tra il valore delle cose e la loro collocazione sul mercato, tra l'essenza dell'opera e la sua monetizzazione. Il nesso quantitativo tra la grandezza di Modigliani e la sua incalcolabile valutazione nel listino prezzi non penso serva a rendere giustizia all'uomo, né tantomeno penso basti a spiegare nemmeno un poco perché un artista sia tale; il legame tra arte e fruizione, tra arte e il suo esserci al mondo costituisce ancora un mistero, qualche cosa che non parla e non fa cenno, ma agisce con la sola presenza. Forse è indicativo il fatto che le opere d'arte siano oggetto di speculazioni proprio nei periodi in cui la cultura conta meno: perché in qualche modo un quadro di Modigliani o Picasso o chi volete sono un bene rifugio che sopravvivrà all'effimero di finanza allegra e sbando dei mercati. Solo che i soldi non sanno andare oltre al loro stesso conteggio; come il potere politico, il potere finanziario è autoriferito, e non sa intravedere la grandezza di un pensiero se non attraverso la grandezza di una cifra. E per quanto questa cifra possa ingrossarsi di asta in asta, noi possiamo avere titoloni di fronte ai quali sbalordire, ma non un grammo dell'essenza di Modigliani e del suo mondo. E in questa separazione, questa incomunicabilità, sta tutta la debolezza di un sistema, quello in cui ci troviamo a vivere, che ha confuso la cosa in sé con la sua rappresentazione economica, un equivoco, o forse un'estrema semplificazione, che ha portato il gusto e la coscienza culturale dell'occidente alla deriva di oggi. Non a caso, il surrogato che ci meritiamo è l'idolatria verso moda e stilisti e relativo circo miliardario. Modigliani, in miseria, i quadri spesso li regalava. 

Balotelli, il politico

Verità e finzione sono elementi intercambiabili del Romanzo di B. Sono sfumature, gradienti di colore dalle tonalità ipnotiche. Balotelli al Milan? E qual è il problema? "Mela marcia" fino a due settimane fa, oggi l'attaccante della nazionale è arruolato, volente o nolente, nella truppa elettorale di sua maestà. Che si sa, di cultura politica si è sempre curato pochissimo, ma in compenso la sa lunga sugli umori di certi italiani, che se sono duri a digerire la democrazia, per contro dimostrano di apprezzare i suoi colpi a effetto da pifferaio magico. Puoi dire tranquillamente che "Mussolini era una brava persona" e "L'Italia ha avuto responsabilità marginali in merito all'Olocausto", tanto nel giro di qualche giorno sarà tutto dimenticato, ma guai a non fare l'acquisto col botto sul finire del mercato di riparazione. Le affermazioni indecenti possono essere obliate con un paio di smentite e qualche passaggio televisivo, l'acquisto di Mario Balotelli rimane, e fa pronta cassa in termini di popolarità e voti. Ecco, a me non piace tanto il paese che emerge da questo tragico raffronto: la cartolina che ci giunge in tavola è delle più desolanti circa le prospettive che ci attendono. Un paese che minimizza il fascismo, accetta senza colpo ferire il revisionismo d'accatto e in più plaude al conflitto d'interessi incontrollato che sottende l'acquisto di Balotelli a me fa spavento. Ma non mi scandalizza. Se B. è riuscito ad essere svariate volte Presidente del Consiglio un motivo ci sarà; se è riuscito a sopravvivere a se stesso anche questa volta, e senza cambiare di una virgola i soliti sproloqui su tasse, comunisti, Costituzione da manomettere, significa che questo paese in fondo non vuole cambiare. Sta bene com'è. Cambierà qualcosa, forse, quando la maggioranza degli italiani pretenderà le dimissioni di un suo rappresentante che si esprime in quel modo nel Giorno della Memoria e alzerà le spalle quando lo stesso individuo tenterà di stupire la platea con un colpo mediatico. Per certi personaggi, l'indifferenza è la peggiore delle umiliazioni. 

una foto un racconto


Il cadavere è lì adagiato ai piedi di una colonna; una coperta cenciosa riveste la sagoma di ciò che resta di un clochard, di una persona, di un essere umano. A mezzo metro, la colazione con caffè e brioche in un bar elegante, il banale di una mattina come tutte le altre, cappuccino e giornale, chiacchiere e qualche sms. Ha qualcosa di straniante la fotografia giunta ieri dalla Napoli bene. Qualcosa di violento e insieme gelido, come la miscela di freddo e abbandono che ha annientato la vita di quell'uomo sotto la coperta. E' un'atmosfera irreale, ma insieme familiare: è il ritratto della borghesia in esterno, una novella Golconda magrittiana coniugata nel gerundio italiano; le due facce, vita e morte, benessere e miseria, sicurezza e sopravvivenza, sono lì che ci guardano, in attesa di una risposta. Chi può ci mangia sopra un cornetto che tanto la vita continua. Un energico e prepotente "'sti cazzi" che spiega forse più di tante diagnosi sociologiche la deriva italiana e la dissipazione della cosa pubblica, uno sciupio allegro e solare che ha corroso le fondamenta morali del paese nel sostanziale disinteresse della maggioranza. Arrivano oggi dichiarazioni delle autorità che smentiscono l'accusa di indifferenza: sembra che all'uomo poi deceduto sia stato offerto soccorso, e che questi l'abbia rifiutato. Non c'è motivo di dubitare che sia andata così. E ci sono per contro molti motivi che rendono problematica e qualche volta ingannevole la lettura di una fotografia. Che raggela l'attimo, condensa un complesso di pensieri, azioni, omissioni tutto lì, tutto in un momento. Eppure nemmeno l'ambivalenza di uno scatto riesce ad annullare la spietata oggettività del reale, con quel tragico, cinico doppio: vita morte, benessere miseria.  

romanzo radicale




Qualcuno dovrà scriverlo prima o poi un romanzo radicale. Non mi candido a farlo. Ma di materiale ce ne sarebbe a iosa, con tutti gli ingredienti necessari. Le contraddizioni e le passioni che renderebbero superfluo qualsiasi surplus romanzesco. I radicali bastano a sé, nel bene e nel male. Una parabola repubblicana sincera, un unicum nella storia di questo paese che però è anche italiano come pochi altri: storia di coraggio e anticonformismo unita a tradimenti e opportunismi, pretoriani libertari fedeli fino alla fine e voltagabbana trasbordati direttamente dai referenda su divorzio e aborto alle sottane dei preti.
C'è spazio per tutto nella cronaca esistenziale di un partito che prima di tutto è stato un'idea: di laicità, di libertà, di ideali. Non a caso, un partito nato dal sentimento di intellettuali di razza, come Ernesto Rossi e Mario Pannunzio, che dello sdegno seppero fare un progetto politico basato solo e soltanto su questioni di principio. Forse per questo il Partito Radicale è sempre stato un partito povero, uno dei pochi a non praticare il gioco delle tre carte e a sopravvivere grazie ai bilanci ritoccati con il bianchetto. E forse per questo è sempre stato un partito ammirato, qualche volta invidiato, ma mai un partito veramente votato. Perché radicale, appunto. Poco incline ai compromessi, anche se di compromessi viventi, allignati tra le sue fila, nel corso del tempo ce ne sono stati parecchi: alfieri della laicità dello Stato e della liberalizzazione delle droghe che poi si sono riversati in massa nei peggiori luoghi comuni del conformismo ecclesiastico o nella malia berlusconiana, di fatto il segno antitetico rispetto all'integrità radicale.




Ma di segni, in questo movimento, partito, manifesto perenne, ce ne sono stati tanti. La mobilitazione sul tema dei diritti civili, sulla legge 194, sul divorzio, sul tema del sovraffollamento delle carceri (questione della quale tutti gli altri partiti se ne sono allegramente fregati) è stata grande e impavida, specie in un paese spesso ipocrita e bigotto come il nostro; per contro, il Partito Radicale non ha mai saputo togliersi di dosso una certa inconcludenza politica, un'incapacità strutturale a capitalizzare in termini elettorali e di governo il sudore versato. E' un grande limite, perché l'utopia a oltranza è qualcosa di più di un simpatico difetto. Poteva avere un seguito in altre epoche, ma in anni cinici come i nostri difficilmente può portare a qualcosa.
E così, l'ennesimo strappo. Pannella che si apparente con l'estrema destra della Destra. Una mossa della disperazione, un arrocco che forse qualcuno, magari Pannella stesso in un momento di maggiore lucidità, definirà una provocazione, ma che per il momento segna una tappa in triste coerenza con la pulsione autolesionista che in fondo sta alla base del partito.




Siamo di fronte alla fatiscenza, senza dubbio, ma in una modalità forse meno folle di quanto si pensi. La pratica del gioco al massacro fa parte della vis pannelliana del partito: le nudità esposte, gli scioperi della fame a vanvera, la vecchiaia esposta senza ritegno sono tutte armi dialettiche di un certo modo alla Pannella di intendere la missione del partito. Coerenti a livello di logica interna, incomprensibili sul piano del sentimento popolare. E questa tensione tra forze opposte – il rigore intellettuale e le piazzate – che è stata per tanto tempo il motore del partito, ora che la legna da ardere è finita rischia solo di disperdere tutto ciò che i radicali hanno rappresentato nel corso del tempo, più forti di figliastri traditori e congiure di palazzo.
Se il movimento riuscirà a ricompattarsi su un nucleo di pensiero traducibile sul piano politico, allora avrà ancora senso di esistere. Altrimenti questo strappo (leggo che Emma Bonino giustamente non ci sta ad apparentarsi con l'estrema destra) rischia di essere il colpo di grazia, e una fine che per quanto negativamente suggestiva non fa che conferire un alone di ambiguità ideologica ad una storia che nel corso di tante legislature si era sempre mantenuta dura e pura.
Dal punto di vista narrativo, un colpo di teatro conclusivo più che degno, dal punto di vista politico e storico una contraddizione che probabilmente supera di gran lunga i confini della provocazione. Bisogna vedere, in altri termini, se la pannellizzazione del partito divorerà quel che resta dell'eredità radicale, o se invece ci saranno dirigenti con altrettanta personalità e chiarezza di idee che sapranno impedire a Crono di divorare i suoi figli.

e tutto il resto?


La malia tecnocrate non è passata sul campo della politica italiana senza conseguenze. La più vistosa, se posso permettermi, è quella di aver condizionato in modo pesante e univoco gli argomenti della campagna elettorale, che sì sono sotto molti punti di vista obbligati, ma che in questa tornata sono stati addirittura esclusivi. In pratica l'unico tema presente è l'economia. Non c'è altro che tenga banco. Ognuno con la sua ricetta, ed è curioso notare come diversi cuochi - B da Arcore in primis - siano tra i principali artefici del disastro politico finanziario che trascinò l'Italia a un passo dal fallimento. Ma è roba di tredici, quattordici mesi or sono: tradotto in italiota un'era geologica fa. Ed è così che ognuno può dire la sua: tracciare strategie, disegnare scenari. Le informazioni fornite in dibattiti e dichiarazioni sono spesso astruse, in qualche caso contraddittorie, ma fa niente, tanto è vero tutto come non è vero niente. Il punto è che è difficile stabilire un criterio: sono argomenti tecnici che solo in pochi padroneggiano, e che tante volte nemmeno i politici stessi hanno ben presenti. Figurarsi la media dei cittadini. Chi è europeista, chi è liberista, chi sbraita di tornare a battere moneta in proprio. Ma sì. Come per la nazionale di calcio, ognuno, nel tabernacolo del proprio tinello, è convinto di saperla lunga. Ma ogni certame ha il suo tema principe, e l'economia ha sempre e giustamente occupato un posto di rilievo, solo che mentre in altri luoghi e altre epoche il suo ruolo era ancora quello di strumento, ora è passata ad essere materia autoriferita e autosufficiente. Chi se ne frega dei diritti, della sicurezza, dell'integrazione, della salute, della cultura. Per paradosso, potremmo dire che persino il lavoro, inteso come mezzo di realizzazione di sé, non ha alcun peso nelle parole della classe politica, salvo rarissime eccezioni; ha senso il lavoro come fattore economico. E si sa che il fattore economico è del tutto disinteressato al fatto che chi lavora siano uomini e donne: se si parlasse di frigoriferi e bulloni sarebbe la stessa cosa. L'economia così come ci viene presentata in questi anni non ha niente più a che vedere con la "legge che regola la casa" (definizione etimologica): manca sia la legge che la casa che chi la abita. 

telepsicovision

Era chiaro che l'ubriacatura da internet avesse le ore contate, e che la televisione, con tutto il suo peso psicopolitico, si sarebbe imposta con pachidermica imponenza nelle trame dei flussi elettorali. Va bene le primarie, va bene il movimentismo via web, ma quando le cose si fanno sul serio, allora ci si fida della televisione e dei suoi santuari: talk, dibattiti, giornalisti talvolta compiacenti, ridda di affermazioni dette e contraddette, proclami, populismo. E i risultati omologanti e in questo senso rassicuranti della tv non sono una sorpresa, anzi: sono la paciosa conferma che tutto va come è sempre andato, al punto che non solo B. è più presente che mai (dire vivo sarebbe troppo) con tutto il suo armamentario da piazzista, ma perfino il compassato e ingrigito Professor Monti è stato costretto ad adeguarsi alla danza, berlusconizzandosi, assumendo cioè le pose del populismo facile sulle tasse (in tono minore però, vanno ridotte un pochino) e sobbarcandosi lo stakanovismo televisivo, da un salotto all'altro, senza tregua. E anche lui si sente in dovere di trattare, di dare qualcosa a tutti, promettere, consentire, illudere. E nell'offrire uno sfondo, la televisione resta imbattibile, perché sa essere invasiva e subdola come nessun altro mezzo di comunicazione: a pranzo, mentre la massaia spadella, a cena, mentre il ragioniere ingolla la pastina. E poi tutto il giorno, lo schermo ha sempre la sua televendita da fare, il suo spazio autogestito da vendere come libera informazione. E in un paese come il nostro, arretrato, il messaggio più efficace resta quello più superficiale, perché l'italiano medio che fino a una settimana fa urlava dalle piazze ladri ladri vergogna vergogna, ora è lì che compra, e vota. E così B. recupera - incredibilmente, in un paese civile - terreno, la Lega è ancora in pista e i vari gruppi di pressione si sono ammassati al centro, in farinosi partitini arraffa briciole. La memoria corta degli italiani fa il resto: ogni quarto d'ora c'è un reset generale, un grande blackout che è anche il ritorno alla verginità di amministratori, imprenditori, uomini di partito già ampiamente deflorati, ma sempre pronti a darsi come il nuovo, anche quando sono sempre le stesse passeggiatrici che hanno solo ritoccato la tariffa. 

professor Sintassi

Il linguaggio politico italiano ha sempre cercato di rendere a parole il vuoto, dalle famose "convergenze parallele" fino al buffonesco "meno tasse per tutti" di più recente memoria. L'esercizio retorico ha una sua nobile radice storica nel pensiero classico, da Platone ad Aristotele, fino alla pratica politica di Robespierre e Danton. Tutto bene, almeno fino a quando il groviglio di suoni e concetti non finisce per staccarsi dall'oggetto di cui la politica dovrebbe occuparsi: i cittadini e la società. Nelle ultime settimane lo slittamento delle trame oratorie dei politici italiani ha avuto un brusco scossone, uno smottamento di entità consistente. Le parole del presidente Monti rappresentano un imponente monumento alla sintassi, un andirivieni di sfumature, sinonimi, glosse, rimandi, messaggi impliciti. La squallida prosa di un Berlusconi, tanto per dire, tutta banalità e slogan, impallidisce di fronte agli arabeschi del Professore, che è capace di velare il proprio pensiero dietro una cortina talmente fitta di fumogeni verbali da rendere impossibile una comprensione univoca da parte di chi ascolta. Ascoltandolo e riascoltandolo, leggendolo e rileggendolo, si capisce che in realtà non esiste un bandolo: le parole sono concatenate le une alle altre per pure e impeccabili esigenze grammaticali, le proposizioni si susseguono morbide e intricate, ma senza un vero peso specifico: nelle loro ampie e soffici volute sono e restano leggere, prive di peso. Potrebbe andare avanti per ore, il Professore, e non riuscirebbe a chiarire un bel niente, ma solo a lavorare altra tela, a tessere nuove ipotesi e nuovi scenari di senso che l'uditore potrebbe intendere almeno in due o tre o quattro modi diversi. La lentezza, i modi pacati, la cadenza soporifera fanno il resto. Si sa che in Italia se uno è ritenuto autorevole lo è per sempre. E sotto la densa coltre di enigmi lessicali che il Presidente cucina per noi ad ogni suo intervento, serpeggia uno spettro antico, e molto italiano: dire e non dire, in conformità con quello standard intellettuale che si è assestato a metà strada tra Machiavelli e la Democrazia Cristiana. Un luogo dove tutto è reversibile, tutto è al tempo stesso detto e non detto, fatto e non fatto. Soprattutto, "né di destra né di sinistra". I ragionamenti della nostra nascente intellighenzia approdano tutti ad un bianco neutro dove la pagina è sempre bianca, e niente è come sembra, perché ogni cosa è al tempo stesso vera e falsa, presunta e certa.