rivoluzione silenziosa

La tecnica in sé non è ideologica, è tecnica: uno strumento, un'applicazione che non è in grado di dare dei giudizi morali o di porsi dei fini che superino i suoi parametri di efficienza. Il governo tecnico che ha in mano l'Italia ha superato questo limite, e lo ha fatto nella forma più volgare: ha distrutto quel che rimaneva dello stato sociale. L'ultima picconata oggi, con l'aggressione alla sanità pubblica, che tra non molto non sarà più pubblica, o per meglio dire, sarà sostenuta dai sistemi assicurativi. I risultati saranno quelli che Barack Obama in questi anni sta tentando di combattere negli Usa: sanità per i ricchi e sanità per i poveri. I bambini che nasceranno in famiglie povere avranno ottime possibilità di rimanere poveri e curati peggio dei bambini nati in famiglie ricche: questa è l'essenza dell'ingiustizia sociale, e questo governo, con l'ideologia inumana che di fatto lo anima, non fa che ricordarcelo ogni giorno. La tecnica applicata alla politica produce dei sofisticati controsensi: la tecnica, che come si diceva è neutra, cambia di segno, assume forme e modalità che sottendono invece ad un obiettivo molto preciso: spaccare la società in due, con pochi ricchi e tanti schiavi. Perché il governo tecnico non vede altra strada per far crescere l'economia che togliere diritti e rendere i cittadini degli automi: non si tratta di una forma perversa di ideologia? Ci sono i dogmi, ci sono le miopie, c'è la volontà totalitaria. E i cittadini comprano, spinti dalla necessità, ma forse anche smantellati a livello di coscienza civile da vent'anni di pura idiozia berlusconiana. E il bello è che non c'è speranza: dove non ha potuto la violenza, dove non hanno potuto i regimi dichiarati, può la tecnologia politica mossa dagli interessi economici, la vera, definitiva forma di controllo delle masse che sta radendo al suolo anni di battaglie sociali e ogni forma di opposizione senza la necessità di sparare un colpo o di marciare al passo dell'oca. 

per una cultura depurata (e minerale)


Polemica in Germania per Kulturinfarkt, saggio contro la statalizzazione della cultura: idee avverse ai numerosi premi letterari, alle sovvenzioni a pioggia, agli ingressi gratuiti ai musei, al numero spropositato di compagnie musicali e via discorrendo. I risultati? Mica tanto buoni. Aumentano gli scrittori e diminuiscono i lettori, per esempio; aumenta la proposta musicale e decrementa la gente che la ascolta. Sono cifre impietose quelle che emergono dal rapporto. Lo Stato è dappertutto, e con esiti penosi, perché i finanziamenti, in quanto espressione muta e cieca, vanno a chiunque nello stesso modo, producendo un sottobosco di "artisti di Stato", mediocri mantenuti. La testi del saggio non è poi così originale, si dice e si ripete spesso che l'arte viene dalla fame, e che le regole di mercato siano chiare: vive chi se lo può permettere, chi fa e riesce a vendere. Anch'io ho avuto la tentazione di dare ragione al rapporto: chi non lo farebbe? Ed è vero che Rimbaud e Modigliani sono stati in cattive acque per tutta la vita, e che forse sono stati dei grandi proprio perché stimolati dall'indigenza. Ma a rifletterci un poco si capisce che non è così semplice la questione. Dividere, setacciare, provare a capire sono operazioni complicate, molto più difficili da fare che non un bel taglio lineare in conformità con i pruriti dei tecnici, che di arte e cultura ne sanno un tubo. Per esempio: i musei gratis per gli under 26 ben vengano, anche se poi gli stessi giovani sono disposti a spendere per il concertone di qualche popstar. Ma ben vengano comunque: l'approccio culturale è qualcosa che richiede tempo e un minimo di sforzo. L'interesse dello Stato per tutte quelle attività che altrimenti il mercato dimenticherebbe è sacrosanto, giusto, e mi dispiace che Francesco Merlo di Repubblica non la pensi così: perché un conto è la degenerazione che porta ad avere più fotografi che agricoltori, e un conto è permettere che sia la legge di mercato a far sopravvivere il cantante alla moda e faccia morire il musicista colto che ha poco pubblico e poco appeal sulle adolescenti. Del resto anche Van Gogh è stato mantenuto tutta la vita dal fratello Theo. Andiamoci piano con i colpi di falce, specie in questo paese, dove il patrimonio culturale è svilito, disprezzato, buttato al macero, e i finanziamenti di Stato seguono la logica della clientela e della compravendita elettorale. In sintesi: se vogliamo azzerare tutto, che sia davvero tutto, e non solo i soliti noti. Azzeriamo anche i finanziamenti alla stampa, tanto per cominciare, così vediamo se la vis guerresca dei giornalisti in pancia e babbucce resta uguale; togliamo ossigeno alle varie sagre e fiere del fico secco patrocinate dalle alte istituzioni; depuriamo la Rai dal mignottume e dalla fuffa che la ammorbano. Assumiamo per concorso, una volta tanto, e con un concorso serio, per piacere, non con la raccomandazione del papà. Una volta creato lo Stato modello, allora potremo anche pensare di togliere qualsiasi paracadute alla cultura di nicchia, potremo far pagare i musei ai giovani (cosa che in Italia comunque accade, è in Francia e Germania che i biglietti sono gratis!). E già che ci siamo, facciamo il contropelo ai dotti sapienti professori detentori di cattedra che non si sa mai dove spariscano quando c'è bisogno di loro, che si fanno corteggiare più di una rockstar quando c'è da lavorare, che delegano ad assistenti, protonotari e ancelle quando non hanno voglia di farsi vedere. Depuriamo la cultura? Ci sto!

manipolazione e silenzio



La strategia della gradualità.Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.Noam Chomsky, 10 strategie della manipolazione.

Forse dobbiamo prendere atto che l'epoca dei diritti è terminata. Non esistono più. Sono stati un lusso che la storia occidentale ha concesso, con qualche remora, per un cinquantennio, dal dopoguerra alla metà anni novanta più o meno. Prima niente, e dopo, cioè ora, niente. E' stata il ministro Fornero a ricordarcelo, con una delle sue celebri uscite, il lavoro non è un diritto: una frase precisa, che indica la precisa volontà del potere di smantellare lo stato sociale, erodendo vita e prospettive delle persone, e assimilandole in un unico movimento collettivo, il più vicino possibile allo schiavismo (il modello è la Cina, tanto per intenderci). Le uscite del ministro Fornero non sono gaffes, ma segnali molto chiari: lei dice ciò che pensa, e ciò che pensa in fondo è molto semplice: una società fondata sul principio di prestazione, "Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico" come ebbe modo di dire Marcuse in L'uomo a una dimensione. Tutto ciò che va al di fuori della catena di montaggio, non può avere diritto ad esistere: persino la vita, nella sua accezione creativa, fuori dagli schemi, che richiede spazio e possibilità di realizzazione, non può essere accettata dal sistema di potere che l'epoca della tecnica, e i suoi degni rappresentanti, stanno impalcando. Non a caso le prime vittime di questo forzatura sono coloro che hanno il massimo potenziale biologico, sia intellettuale che sessuale: i giovani, la cui emarginazione sul piano sociale ed economico è un passo essenziale per l'affermazione del pensiero unico, un pensiero che si sta diffondendo con strenua pervicacia e in modo silente, distillato, come giustamente nota Chomsky, nell'osservazione di cui sopra. E il bello è che questo è solo l'inizio: l'argomento della necessità non conosce confini, potenzialmente può arrivare fino agli estremi della logica, che so: lavorare gratis o pagare per lavorare (non funzionano così già molti stages?). Chi vivrà vedrà, ammesso che ne avrà il diritto (di vivere). 

four years more


Per ricadute politiche e per significato, la rielezione di Barack Obama vuol dire molto, anche a livello internazionale, come è logico che sia il secondo mandato di un presidente Usa. E' vero, ha perso voti per strada, ma stavolta non c'era l'effetto sorpresa, il presidente uscente non interpretava più l'uomo dei sogni con le tasche piene di magia, ma era semplicemente un uomo politico reduce da tutti i logorii e i compromessi che la politica richiede: una figura meno strabiliante, ma più concreta. Sceglierlo, da parte del popolo americano, ha significato prima di tutto un gesto di maturità e coraggio. Maturità nel capire che Barack Obama ha fatto il massimo e anche laddove ha negoziato lo ha fatto per il meglio, tenendo sempre presente l'interesse generale; coraggio nel continuare a sostenere un progetto progressista e aperto al mondo, senza cedere alla tentazione di rifugiarsi nel calderone medievale dei repubblicani, capaci di agitare cappi e fucili, ma incapaci di ammettere le responsabilità della disastrosa era Bush nel dissesto economico che ha investito il mondo intero. Un partito molto arrogante quello repubblicano, ma questo è un altro discorso. Barack Obama rappresenta una scelta politica in linea con il mondo che cambia, e in linea con l'aspetto migliore di tale cambiamento: solidarietà sociale, garanzie per i più deboli, politiche economiche di buon senso. Ho letto e ascoltato i suoi discorsi, non c'è mai traccia di revanche nelle sue parole: non è un uomo contro, ma un uomo per, a differenza dei suoi detrattori e dei suoi antagonisti elettorali. La ragione è semplice: fa proposte, ha idee, come ogni persona che ha in mente un progetto e non si limita a dire di no e a minacciare alzate di scudi quando le cose gli dicono male. Si può sempre fare di meglio, ma la prima regola è non fare peggio, e gestire le macerie del dopo Bush conferendo credibilità e affidabilità alla propria politica non è stata cosa da poco. Il meglio deve ancora venire? Forse. Il secondo mandato, per un presidente Usa, è sempre quello in cui può permettersi di osare di più e di andare fino in fondo nel proprio programma. Nel caso dei repubblicani si è quasi sempre trattato di un andare a fondo nel peggio, nel caso di Barack Obama c'è qualche ragionevole speranza che una nuova stagione prenda corpo.