voto astensione


Sai che vantaggio non andare a votare. Tanto qualcuno viene eletto comunque, e ha buon diritto di governare. Se l'astensione, il disinteresse vogliono essere le armi di protesta contro il malaffare e la corruzione, l'esito che si rischia di ottenere è diametralmente opposto al risanamento: un governo ci deve essere lo stesso, anche senza quorum. D'altra parte chi non vota che cosa spera di ottenere esattamente? L'instaurazione dell'anarchia? Non credo proprio. Forse è anzi nei momenti difficili come questo che la partecipazione alla vita civile di un paese ha valore doppio: per determinare chi governa e creare le basi per una nuova stagione politica. La disillusione e la nausea per quanto accaduto negli ultimi anni sono sentimenti più che comprensibili, sentimenti che rischiano di essere acuiti dai ritorni di fiamma in stile B., che blatera a ruota libera il suo solito numero di varietà, senza che nessuno abbia il coraggio di dirgli che per amor dei mercati sarebbe meglio stesse zitto. Ma il punto è proprio questo: non votare significa lasciare vuoto uno spazio di potere (l'ho già scritto altrove, ma lo riscrivo), sul quale poi non si può più esercitare alcun controllo. Fino al paradosso della Sicilia, dove meno della metà degli aventi diritto al voto ha stabilito chi governerà anche tutti gli altri, segnando a prescindere un passo indietro nella gestione consapevole del proprio territorio. L'astensione è da sempre una delle vie che la democrazia garantisce ai suoi cittadini, ma la facoltà di continuare a decidere è esclusivo appannaggio di chi questa democrazia la compone: e un bene tanto prezioso, tanto faticoso come quello del voto non merita di essere gettato via insieme alla compagine politica che quel voto lo ha svilito e umiliato. In un certo senso bisogna essere più forti del mostro, quel mostro di corruzione e lassismo che ha sfregiato l'Italia per tanto tempo e che se si rinuncia a combattere potrebbe tornare alla ribalta, con un nuovo belletto e una nuova parrucca, per divorare il poco che resta. 

la collezionista

Bamboccioni, sfigati, fannulloni, e ora tocca anche il perfido e sottilmente ipocrita choosy. La lista di allusioni, richiami, insulti veri e propri sparati a sangue freddo dal potere nei confronti di chi non ha potere è sempre più sorprendente. L'esercizio della forza nei confronti dei deboli è un classico della politica più impudente. L'omertà nei confronti dei forti è un marchio altrettanto distintivo di un certo modo di amministrare la cosa pubblica. E' tutta una questione di abilità in fondo: si tratta di sviare l'attenzione della massa dalla sostanza dei problemi (corruzione dilagante, criminalità, gestione folle dello Stato e tutte le altre belle cose che sappiamo) per trovare un capro espiatorio comodo e a portata di mano, un capro espiatorio che non può difendersi, che non ha voce, che in quanto economicamente debole non ha neanche il diritto di esistere. In un paese in cui anche le puttane hanno un sindacato, i giovani precari, disoccupati, fuori corso e chi più ne ha più ne metta sono il bersaglio più facile che si possa trovare. Crisi economica? Colpa dei giovani troppo selettivi. Il salto logico, lo scarto tra la realtà e la sua  banalizzazione tendenziosa è talmente grosso, talmente paradossale da rischiare di passare inosservato nel paese in cui tutto è possibile, anche che un ministro della Repubblica collezioni un'altra figura non molto brillante, dopo quella altrettanto sconvolgente del lavoro "che deve andare a chi se lo merita". Ma evidentemente il nostro ministro ama ragionare per paradosso. Il problema è che qui non siamo in un'aula universitaria, non siamo a scuola, ed è tutto più complicato: qui non c'è il ricatto del voto sul libretto. Non è più come quando eravamo a scuola, quando dovevamo ridere per forza delle battute foolish del professore. Possiamo fischiare, e anche fare un democratico pernacchio. 

strategie democratiche


Mi dà un po' di dispiacere e qualche pensiero sentire che il rinnovamento del progressismo italiano (leggi Renzi) stia percorrendo la strada dello slogan e dell'anafora politica. Ripetere a oltranza verbi, sostantivi, concetti che se ne restano lì, appesi al filo dell'oratoria senza spiegare nulla di ciò che siamo e di ciò che faremo mi sembra davvero una povera cosa. E dico questo  dando per scontato il bisogno di rinnovamento della società italiana. E do per scontata anche una certa dose di urto, necessario per scansare dalla poltrona chi ci era abbarbicato con la ventosa. Ma ricorrere a parole d'ordine, copertine patinate in posa con papà e soprattutto giustificare il cinismo politico come un'arma inevitabile non mi pare un grosso passo avanti: ne abbiamo già avuto uno di rottamatore, che campava di slogan, di concetti essenziali, di nemici proverbiali e di liberismo d'accatto, e direi che è stato abbastanza. Ma forse sono io che chiedo troppo, forse le campagne elettorali sono solo questo bombardamento di suoni vuoti, di parole ripetute a oltranza per inculcare bene nel cittadino i cardini elementari dei nuovi processi di potere, ma da un partito che si fa chiamare Democratico e che ambisce a diventare depositario della grande lezione democratica mondiale, da quella americana alle esperienze socialiste europee, sarebbe lecito aspettarsi uno scatto in più, un valore aggiunto che non è certo il giovanilismo facile di un aspirante leader con poco carisma e tanta presunzione. Ciò detto, l'auspicio è che lo sconfitto di turno faccia il bravo, e si metta disposizione del partito alimentando la dialettica interna e fornendo un contraltare costruttivo alla linea direttiva. Le dichiarazioni d'intenti vanno in questo senso, ma si sa i buoni propositi che fine fanno. I passi che portano dalla voce "dialettica interna" a "correntone interno" a "bastoni tra le ruote" a "litigio perenne" a "scissione con nascita di un altro partitino" sono pochi, e tutti facili da percorrere. 

quello che resta


Basta guardarsi intorno: la politica di cui dibattiamo, semplicemente, non ha senso. Il ghirigoro doroteo, il "non mi dimetto", l'attaccamento patetico al potere, la massa di scandali che ormai ci lascia indifferenti sono il segno di una decomposizione avvenuta, e forse irrimediabile. La politica ha cessato di esistere. Quando questa morte sia avvenuta non lo so, è materia da storici o da giornalisti in poltrona (meglio i primi che i secondi), ma certo è che il peso specifico delle scelte prettamente politiche è sceso a livelli inediti, e ancora di difficile interpretazione. Se la politica smette di stabilire un canone, fatalmente questo potere passa di mano, e da politica, ovverosia interesse per la polis, per la comunità, si passa a qualcos'altro. La strada, in questo senso, è già segnata: il posto di potere è stato occupato dalla tecnocrazia, con qualche vantaggio immediato e, temo, incalcolabili scompensi sul medio periodo (visto che sul lungo, come va di moda dire, saremo tutti morti). Tecnocrazia significa dominio dei mercati, degli appetiti economici, della produzione sganciata dal fabbisogno e via dicendo, ed è un crescendo talmente sproporzionato che non dà la possibilità di fare previsioni, se non nella forma infantile dei sondaggi o delle proiezioni matematiche, che tengono conto di tutti i parametri possibili ad eccezione dell'uomo. Lo scampolo di politica che ci rimane è degenerato nel pettegolezzo delle dame di corte, nel "mi dimetto non mi dimetto" di qualche consigliere da strapazzo, nei crimini della peggio Italia che ha arraffato una poltrona. Possiamo fare a pugni e disperderci nel raccontare queste frattaglie, che danno fastidio, che sono un'indecenza, ma che non sono la sostanza del problema, o meglio, sono solo il sintomo di una necrosi arrivata allo stadio terminale. La formula del potere tecnocratico, la vera e propria tecnologia del potere che ha ricadute sulla biologia dei corpi e sulle forme sociali, sta già lavorando nell'ombra, ha già di fatto occupato il vuoto lasciato dal cadavere della politica, intenta solo a litigarsi scampoli sempre più assurdi nei dibattiti televisivi e nella retorica del giornalismo di giornata. Bisogna pensare a nuove forme di vita in comune, siamo tutti d'accordo, ma quali saranno queste forme? Come scrivevo tempo fa, io non credo all'ubbidienza cieca alla necessità, che altro non è che lo strumento di controllo ricattatorio su cui la tecnocrazia fonda il suo dominio. E intanto la vita reale - sanità, istruzione, lavoro come possibilità di dignità e indipendenza - scivola sullo sfondo, si riduce ad argomento opzionale, al pari dell'uomo, che ha scelto di mettersi da parte, in attesa di istruzioni. 

questione di merito

Sì, va bene il merito, sì, va bene la meritocrazia, che è un concetto un po' nebuloso ma va bene lo stesso. Svecchiamo, rompiamo i vecchi clientelismi, ci sto. Il fatto è che quando una parola subisce l'ormai collaudato trattamento da tritacarne, subito, in automatico, i miei recettori si attivano, e comincio a sospettare. Vuoi vedere che questo fastidioso neologismo - meritocrazia - è un altro slogan? Forse la politica, compreso il nuovo che avanza Matteo Renzi, confida nella proprietà magica delle parole; loro le parole le evocano, e poi si vedrà: magari qualcosa succede, o forse non succede niente, tanto è lo stesso, l'importante è che se ne parli e si crei confusione, tanto la differenza tra uno slogan e la sua ricaduta in campo pratico difficilmente qualcuno andrà a verificarla. E poi se proprio devo dirla tutta questa meritocrazia mi suona male: chi giudica chi è meritevole? Politici, imprenditori, chi? I padroni di ieri che hanno portato al collasso l'Italia? I nuovi tecnocrati che vogliono farla diventare una catena di montaggio con tanti addetti schiavi e felici? A me non piace questa parola. E' insincera, è voluta dai padroni, è imposta dall'alto; non viene da una storia, non ha delle radici. Il concetto di merito può essere manipolato, travisato fino a farlo coincidere con la capacità dell'individuo di aderire ad un modello autoritario: se accetti qualsiasi cosa e non fiati sei meritevole, se dici di no, se accampi diritti, se pretendi di rimanere una testa pensante, allora non lo sei più. E che fine fa l'immeritevole nella società meritocratica? Se il parallelo funziona, dovrebbe essere la stessa del regicida nella monarchia, una fine da Bresci, da Passannante. Naturalmente non ho la verità in tasca. Il mio è solo un sospetto. Ma il sospetto che questa meritocrazia sia un'altra gabbia da sommare a tutte le altre gabbie che il sistema economico impone sull'individuo, diciamo, è molto forte.