medioman sul Sassolungo




I primi a capitalizzare la voglia di montagna dell'italiano medio sono i marchi della grande distribuzione. Scarpe tecniche con doppio rinforzo, impermeabilizzate in Gore Tex, improbabili pantaloni allungabili a lampo, zaini tipo trasloco con borracce pendenti, imbragature, moschettoni da svariati Newton, calze impermeabili, occhiali antiriflesso, berretti che neanche Indiana Jones.
Li vedi a bassa quota. Arrivano in macchina (la macchina è il primo, grande segno distintivo degli italiani) fino all'ultimo spiazzo disponibile, i bambini frignano già.
Pance rilassate, deretani abbondanti. L'altra caratteristica distintiva dell'italiano medio in montagna è che fa molto chiasso. Urla, strepita, si agita. L'accento è di solito pesante, come l'attrezzatura da esploratore Tobia che si porta appresso.
Ad occhio e croce l'allegra brigata viaggia sulla media dei trecento euro a persona per agghindarsi come neanche Messner al Polo, bambini in testa, ai quali il mercato offre di tutto, compresi zainetti in scala griffati dalle grandi marche, zainetti che per bene che vada serviranno a trasportare il lucidalabbra di mamma.
Poi, una volta bardata, la famiglia consuma una colazione pantagruelica (si fa così nel continente), in vista di intrepide escursioni e spericolate ascese. Che verranno surrogate dallo struscio nel centro del paese, ormai ridotto a prodotto di consumo per il gonzo che non chiede di meglio di lasciare per strada qualche altro soldo in gnomi da giardino vestiti alla tirolese. Con lo struscio, esatta replica di quello domenicale a casa propria, l'italiano medio esaurisce gran parte della propria sete di avventura. Al massimo una qualche risalita con gli impianti, una bella polenta in quota, e la vacanza può dirsi ben riuscita.
I più temerari tenteranno l'escursione fuori porta, salvo pentirsene nel giro di qualche centinaio di metri. Donne in deliquio, uomini arrancanti, bambini che se prima si divertivano a tirarsi rami in testa ora piangono a vanvera, dimentichi ormai anche del perché dei propri capricci.
I tedeschi saranno quel che saranno, ma quando sono in montagna hanno un aspetto molto dignitoso. Tecnici sì, ma funzionali. Camminano, scalano, macinano terreno come dei rulli compressori. Uomini, donne e bambini. Hanno le galosce consumate e gli zaini logori, e la giacca Ferrino, se ce l'hanno, non ha il cartellino ancora attaccato. Non ho mai visto un bambino teutonico gettare la carta del Mars per terra, né lagnarsi di non riuscire ad andare avanti, né fare un capriccio per essere preso in braccio. E non sono filogermanico, e lo so bene che tutta questa educazione spesso va a farsi friggere quando si tratta di visitare Roma o Firenze, con le fontane rinascimentali buone per farsi un pediluvio.
Ma in montagna dev'essere diverso. Forse è più congeniale allo spirito teutonico che non a quello italico, anche se gli alpinisti italiani sono tra i più grandi scalatori di vette del mondo; ma qui non stiamo parlando di iscritti al Cai. Stiamo parlando dell'italiano medio nel blu dipinto di blu, ed è tutta un'altra storia.
La vera, grande discriminante della montagna resta l'altitudine. Unita all'assenza di impianti di risalita, segno che se vuoi salire, devi camminare. Allora si opera una naturale scrematura. Ci si trova in pochi. Ci si saluta, con cortesia, perché si sa che si potrebbe aver bisogno dell'altro. Ci si scansa quando qualcuno giunge dal basso: ci si ferma, si cede il passo quando si proviene da una discesa. Le pance spariscono, o se ci sono, sono supportate da polpacci che fanno impressione.
Ha l'aspetto sano la gente che si ritrova in quota. Anche gli anziani, perché talvolta se ne trovano, non hanno ventri sformati, non inveiscono, non rimpiangono un mondo che non c'è più, o che c'è stato solo nella loro fantasia.
In quota si sviluppa una nuova forma di convivenza se non proprio di fratellanza.
I rumori si abbassano, si dissolvono. Lo spread è una cosa che non esiste. Gli aperitivi, gli arredatori d'interni, le chiacchiere, le ricette, di colpo perdono peso e consistenza. La verità è un mondo diradato fino alle sue ossa, fino al suo midollo di roccia e vento.
Mi hanno chiesto se sono paesaggi che meritano: sei tu che devi meritarteli, e non è uno slogan. Dopo cinque, sei ore di cammino, il corpo non è più la vetrina delle proprie vanità o la discarica della propria incuria, ma noi stessi che pensiamo, agiamo, siamo nel mondo, ed è più facile parlare di mondo quando la realtà della terra non è solo l'artificio irreale sotto cui l'uomo ha deciso di seppellire se stesso. Anche se vestito da trecento euro.

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