tecniche di fede

E' una strana mutazione antropologica quella a cui stiamo assistendo: il cattolicesimo a braccetto con la tecnocrazia. Per una volta l'Italia si trova ad essere il laboratorio sociale in cui si sta sviluppando questo curioso e per certi aspetti inquietante embrione. Da un lato il concetto del vecchio capitalismo: banche e padroni che comandano i poveri diavoli stipendiati, e dall'altro il conforto della fede, sdoganata ormai anche dal punto di vista fiscale, grazie alla farisaica mossa dell'Imu. La vecchia società italiana si trova così un po' più vicina all'Europa, o per meglio dire a quel calvinismo che per primo riuscì a coniugare religione e affari, materia e spirito, promuovendo la produzione di beni a strumento per raggiungere Dio. Ma si parlava di calvinismo appunto, non di cattolicesimo. Ci voleva un non eletto governo tecnico cattolico per costruire il ponte culturale decisivo tra le due estremità: ovverosia la creazione (mai verbo fu più adatto) di un presupposto etico economico alla coesistenza della tecnica e della religione. Un pasticcio dirà qualcuno. Per me, un colpo di genio: unire le due forme di potere più funzionali e durature che la storia umana abbia mai prodotto (soldi e religione) sotto il segno del bene comune e della necessità rappresenta in effetti qualche cosa strano, di inusuale, ma che promette bene come forma di potere pressoché assoluto. Non è un'idea nuovissima, come si diceva, basti pensare al calvinismo e in una certa misura anche agli Usa. Ma in ambiente cattolico, e in senso lato mediterraneo, certamente presenta diversi motivi di interesse. Il governo Monti ha sconfitto perlomeno Marx, che prevedeva il superamento del concetto di religione ad opera del materialismo e Jünger, che individuava nella tecnica una potenza anticristiana (ne L'operaio). Per abbracciare che cosa? In fondo una risposta almeno in parte soddisfacente c'è, basta rileggere la Prima lettera ai Corinti, di San Paolo: "...mantenetevi fermi, incrollabili, sempre sovrabbondando nell'opera del Signore, e sapendo che il vostro lavoro nel Signore non è vano." Come dire: ogni sforzo nell'ottica della produzione ha un valore religioso . Un'esagerazione? Forse. Anche perché è probabile che a Passera & co. importi un fico secco di San Paolo, ma l'assonanza estetica se non etica rimane. E a noi purtroppo rimane un abbraccio mortale che di fatto impoverisce o nega l'aspirazione individuale ad essere qualcosa di più di un numero in uno schedario o un'anima da redimere o una massa da sacrificare in nome di questo strano progresso.

se non giochi hai già vinto

Un gruppo di persone straparla su ciò che desidererebbe fare, parte il jingle sulle note di una canzoncina di Toto Cutugno: "Lasciatemi sognare, sono un italiano." Ed eccolo qui un altro bel ritratto della media italiana: il vecchio terno all'otto, il vecchio gioco delle tre carte, che tanto non vinco ma chissà e altre frasi fatte tra le quali una molto quotata è la solita: se non giochi non vinci, figlia dei vari chi non risica non rosica, tentar non nuoce e altre scemenze della nonna che albergano nelle nostre esauste coscienze dall'infanzia. Lasciateci sognare, che caspita. Un sogno è gratis in fondo. E una giocata, cosa vuoi che sia? Una partita a poker, una partita a poker on line, qualche euro nel video poker, alla slot, alla lotteria: le possibilità di sbattere via qualche euro (o di rovinarsi la vita) sono infinite, e alla portata di tutti. E lo Stato patrocina. E incassa. Può solo trarre vantaggi dalla penosa monetizzazione dei sogni degli italiani: che cosa desideri? Prova a giocare, magari vinci, chissà. Roba che nemmeno il Gatto e la Volpe. Ma la straordinaria diffusione di questi spot, che vendono il gioco d'azzardo come un passatempo per famiglie, la dice lunga sulla crisi morale e materiale che attraversiamo: descrive una società alla disperata ricerca del colpo, della botta di fortuna che ti sistema, e addio a tutto. Un'illusione che lo Stato diffonde e protegge, salvandosi con la postilla tanto patetica quanto ipocrita: gioca con moderazione, che senza volerlo denuncia in modo plateale proprio ciò che vuole esorcizzare: il rischio di non venirne fuori più. Non solo dal gioco in sé (che nelle forme più gravi è una malattia) ma dalla presa in giro di potersi comprare la felicità per mezzo di una lotteria. Mai il sospetto che il riscatto di un individuo possa passare dalla conoscenza e dalla cultura, ma sempre e soltanto dai soldi, meglio ancora se pronta cassa e subito. Come in una novella di Verga, l'italiano medio appare ossessionato dalla "roba", dall'accumulo, dai soldi facili come obiettivo o peggio ancora come speranza. E con il placet dello Stato, festaiolo o tecnico che sia.

la democrazia a doppio binario

Ci siamo ormai abituati a considerare normale, se non addirittura giusto e "necessario", che le riforme degli stati e i risanamenti delle economie debbano passare per forza di cose attraverso lo smantellamento dello stato sociale e la svendita del pubblico al privato. Con i governi, oltretutto, commissariati proprio da quelle banche che in ampia misura hanno causato l'affondamento dell'economia occidentale, prima comprando quote consistenti dei debiti sovrani, e poi pretendendone la restituzione. Il minimo che possa capitare è che la società civile si ribelli. Come in Grecia, appunto. Dove il problema si presenta in maniera duplice: da un lato lo scadimento della qualità della vita (sempre e solo a spese del pubblico) e dall'altro il progressivo deprezzamento della democrazia, che in tempi di crisi viene evocata a corrente alternata, sempre a difesa dei garantiti. Come in Italia del resto, dove ci viene democraticamente ricordato che siamo sottomessi alle sacre Istituzioni, salvo poi dimenticarsi che le suddette Istituzioni andrebbero elette dal popolo, cosa che non è accaduta. Ecco, questa democrazia a doppio binario è l'elemento nuovo che emerge dalle nebbie di questa nuova (!) fase politica: una democrazia che alla faccia del suo etimo gioca a favore dei potenti e puntualmente dice male a chi, forte di un solo voto, si vede privato anche di quello. E per che cosa? Per vedere ciò che è suo (il pubblico) ceduto pezzo per pezzo a qualcun altro (il privato) che ha in mente, come è logico che sia, di trarne profitto. E per sentirsi ripetere, in saldo, le solite favole sulla concorrenza che migliora il servizio ai cittadini. Come se tanti anni di fallimenti non avessero insegnato nulla.

certi sogni è meglio non farli

Meno male che le Olimpiadi non si faranno in Italia; meno male che non ci saranno altri sperperi di denaro pubblico; meno male che ci verrà risparmiata la manfrina del "marchio Italia da esportare". Meno male che gli appelli dei calciatori miliardari cadranno nel vuoto, e meno male che le ambizioni dei nostri disastrosi vertici sportivi verranno frustrate. L'Italia che ha pasticciato con i Mondiali di nuoto, che ha dietro di sé i buchi di bilancio delle Olimpiadi invernali di Torino, che ha ancora sparse per il territorio le angosciose cattedrali nel deserto di Italia 90 e che versa, infine, in una crisi economica senza precedenti, non poteva sobbarcarsi anche l'onere di un'Olimpiade. Non quando non si è capaci di costruire una rete di infrastrutture decente, quando un chilometro di autostrada ci costa quattro volte rispetto agli altri paesi europei. Non quando, soprattutto, lo sport è considerato meno di zero. Lo sport, non le Olimpiadi intese come carrozzone pubblicitario e formidabile torta per gli intrallazzoni. Vadano a finanziare la formazione fisica sportiva dei giovani questi soldi, vadano nelle palestre della federazione che faticano a far quadrare i conti, vadano agli sport così detti minori, quelli che non muovono interessi miliardari e che sono a costante rischio estinzione. Perché in un paese in overdose da calcio paccottiglia è perlomeno un'ipocrisia parlare di grandi eventi sportivi. Ed è davvero inquietante doversi sorbire oggi l'indignazione a gettone di una certa compagine politica, che è andata in barca per una nevicata. O forse siamo solo di fronte all'ennesimo, italianissimo, esercizio di presunzione a oltranza, di demagogia, di panem et circenses dato in pasto al popolo. Ma forse la gente, stavolta, ha cominciato a mangiare la foglia. P.s.: a proposito di grandi eventi, si sa più niente del mitico Expo?

una strada senza ritorno

Curiosando in libreria scopro che la cantante Rosalba Pippa, alias Arisa, ha pubblicato un libro con la principale casa editrice italiana. Mi chiedo quali siano gli orizzonti che la nostra editoria ha in mente di raggiungere, persa tra libri di cucina, biografie dei calciatori, romanzetti delle stelle (?) dello spettacolo e altra gente ancora che con i libri non c'entra nulla. In realtà quello di Rosalba Pippa è solo l'ultimo caso, e forse nemmeno il più grave: è il sistema che è malato, infetto alla radice, non per colpa della cantante ovviamente, ma a causa della stagnazione del sistema, che preferisce puntare su nomi noti al grande pubblico. E pazienza se questi scrittori improvvisati con la scrittura non c'entrano nulla: ci penserà un bravo ghost writer a dare il giusto fondotinta ai pensierini delle starlette. Il problema è che in questo modo l'editoria non fa più il suo mestiere e uccide nel senso più cruento del termine le nuove proposte e i nuovi autori. Come uscire dall'impasse è fin troppo evidente: ciascuno dovrebbe fare il proprio lavoro, ed evitare di usare i libri come cavallo di Troia per promuoversi. I libri agli scrittori ma soprattutto i libri ai lettori, che sempre più spesso vengono trattati alla stregua del pubblico televisivo, secondo un'equazione tanto opportunista quanto falsa. E mi rifiuto di credere che un lettore, un lettore vero, appassionato e selettivo, possa accondiscendere alla stortura imposta dagli star agent in combutta con gli editor compiacenti. Una moratoria nei confronti di questa spazzatura pseudo letteraria potrebbe essere una soluzione: visto che parliamo sempre e solo di soldi e che ogni singolo atto dell'industria culturale ha un movente esclusivamente economico, bisognerebbe dare fastidio proprio sul portafoglio. Boicottando la truppa di veline, cantanti, star, calciatori, politici e chi più ne ha più né metta che ingolfa il mercato con i suoi detriti. Perché è davvero spiacevole che la retorica del merito valga solo per i cervelli in fuga e per i laureati con 110 e lode e non valga per gli artisti che non si sono mai risparmiati, e che in questa ruota infernale puntano tutto, ogni giorno.

le nostre prigioni

Ho riletto una vecchia intervista rilasciata da Alberto Moravia. Ad un certo punto leggo: "Un artista vive bene in un paese libero, magari anche in decadenza. Anche dove c'è uno Stato in completo sfacelo." Qual è l'Italia di oggi? Un paese in piena decadenza, ma anche un paese poco libero. I due fenomeni di solito non vanno necessariamente di pari passo, anzi, spesso sono inversamente proporzionali. Qui è avvenuto, sta avvenendo, l'esatto contrario. La libertà, intesa come libertà d'azione ma anche di pensiero, è in grave pericolo. La principale causa di questo dramma è sotto gli occhi di tutti: la tecnicizzazione delle idee, che vengono rese funzionali ad una logica di produzione, sta dilagando. La logica che il governo tenta di applicare sulla vita collettiva degli italiani rappresenta un pericolo grande e invasivo: le sciocchezze su precariato, mondo giovanile, possibilità di programmare un futuro, non sono semplici gaffes, ma sono messaggi precisi. Sono il pensiero dominante. Non dico che domani mattina ci sveglieremo e non saremo più liberi di dire quello che vogliamo, ma che gli spazi per un pensiero critico e indipendente saranno sempre di meno: con meno tempo a disposizione, meno garanzie, meno tutele e sempre più potere nelle mani del padronato la voce di chi non è garantito sarà destinata a sparire. Allo sfacelo economico si accompagna anche la disfatta della libertà di pensiero, che rimarrà forse appannaggio delle élite culturali, ma che sparirà fatalmente dall'orizzonte popolare. L'uomo annichilito nella sua singolarità e unicità diventa un automa, un pezzo di ricambio, un arnese di cui disporre a piacimento, e ogni singolo atto, parola, gesto di questa non eletta classe dirigente va esattamente in questa direzione. Lo testimoniano tanto gli atti concreti posti in essere, quanto la retorica con cui questa novella aristocrazia si propone: una ambivalenza discorsiva che, come nel peggiore dei sofismi, produce da sé la verità del proprio discorso, proprio perché, come nel sofisma, non mira a dire le cose come stanno, ma a costruire uno scenario funzionale allo scopo. Il punto allora non è più porre uno steccato tra ciò che è bene per la persona e ciò che oggettivamente è male (la precarietà a vita per esempio), ma indurre la popolazione a ritenere che la precarietà sia l'unica strada praticabile, e in quanto tale la strada giusta. E così, con un espediente retorico, il cardine del discorso politico non è più l'uomo, ma il l'economia di mercato, che da strumento è diventata fine. Come prevedeva Marx in fondo. Ma con una dose massiccia di ipocrisia in più. E per rispondere all'osservazione di Moravia: no, non possiamo dirci liberi.

ribellioni

C'è stato un momento della mia vita in cui sentivo un bisogno spasmodico di leggere i giornali. Era una delle prime cose che facevo la mattina: dalle notizie on line, agli scartafacci gratuiti distribuiti in metropolitana. Volevo sapere, volevo leggere le notizie. Sono cresciuto con questa regola stampata in testa: i giornali vanno letti, bisogna informarsi, sennò ti fregano. Qualche volenterosa e inutile insegnante si piccò pure, mi ricordo, di 'insegnarci' a leggere i quotidiani. Pratica curiosa, che non ho mai capito del tutto (a meno che non siano scritti in cirillico) ma a quanto mi risulta diffusa. Insomma, ero un avido consumatore di notizie. Ora molto meno. Se non leggo il giornale per un giorno o anche due non mi sento in colpa. Pazienza se la benzina è rincarata. Pazienza se mi perdo l'ultimo scandalo della politica con annesse sparate idiote del politico di turno. Pazienza anche se mi perdo qualche insulso articolo di terza pagina commissionato a peso d'oro a qualche baronazzo dell'accademia. Il tempo che risparmio non aprendo i quotidiani lo spendo parlando con la gente, o leggendo un libro. Ma non sono più disposto a farmelo sottrarre da tanta fuffa mediatica, da questa specie di trappolone giornalistico dove non si riesce più a capire quale sia la realtà delle cose e quale sia l'ennesima macchinazione di potere. Dove una casta tremenda (quella del giornalismo) si sposa con i suoi sciagurati epigoni, tra i quali spicca la politica. Ecco, a me dell'analisi socio politico economica del direttore di giornale prestigioso non me ne importa più niente. Perché lo so depositario di un potere ingiustificato, che se poteva avere un senso agli albori della stampa oggi non ha più ragione di esistere. Non voglio un gerarchizzatore delle notizie. Non voglio nemmeno che l'inquietante presenza dei Professori eletti da nessuno campeggi minacciosa nelle mie letture quotidiane. Non mi interessano più le pagelle dei calciatori. Non mi interessa il panino di dichiarazioni dei parlamentari. Ho ancora troppi libri da leggere, troppi autori che non conosco, troppi pensatori che ancora non ho scoperto per sprecare il mio tempo in questo modo.

let it snow

A me la neve non è mai piaciuta molto. Almeno fino a oggi. Stamattina ho scoperto che non mi è più antipatica di una stringa che si slaccia o di un colpo di tosse. La ragione di questo cambiamento non la so bene. Forse ho avuto una cognizione improvvisa (anche se la cognizione dovrebbe essere un processo graduale), o forse mi sono stancato di sentire gli organi di stampa che strombazzano la trita "emergenza neve". Allora la neve da oggi mi piace, per pura autodifesa. Ne ho talmente piene le tasche, che ho trovato più di una ragione per farmela piacere. Prima di tutto perché dà un po' di colore alla monocromia grigio sacco di pattume delle nostre strade, tutte uguali, tutte asfaltate nello stesso modo, sterminate periferie prodotte in serie da Torino, a Milano, a Roma, a Napoli. Rotonde, capannoni, ancora rotonde, ancora capannoni. Il Carrefour, la Coop, il Mediaworld. L'unica Unità che forse ci sia riuscita. E poi perché la neve manda un po' a puttane il nostro sbalestrato senso dell'ordine, per cui la siccità prolungata o la così detta neve chimica non fanno notizia ma uno schizzo di neve autentica manda in sollucchero i telegiornali e in fibrillazione i nostri stati d'animo. Allora ho capito che non ho mai avuto vere ragioni per avercela con la neve: ero anch'io vittima di un'idea sbagliata, che vuole il clima al nostro servizio. O che peggio vuole l'omologazione non solo dell'umanità, ma anche dei fenomeni naturali. Un anno solare tutto a venti gradi, senza pioggia, senza neve (solo in montagna, per sciare), senza vento, o con il vento solo per le barche a vela di qualche ricco. Il mondo cesserebbe di esistere. E' un'osservazione banale, ma forse nemmeno tanto. Abbiamo capito che cos'è lo spread - che di fatto non esiste, è una speculazione, un'astrazione - ma abbiamo dimenticato che la neve non serve solo per sciare; ci riteniamo colti e dotti, ma siamo solo degli analfabeti incapaci di accendere un fuoco o di distinguere una foglia di acero da un ramo d'ulivo. Imparando un alfabeto imposto e di fatto inesistente, abbiamo rimosso, messo in un angolo o apertamente frainteso il linguaggio della vita. Che poi è quello che impariamo da bambini, e che per istinto qualsiasi Neanderthal sapeva e rispettava: la ciclicità della natura, la necessità di rispettare le risorse.