realtà 2.0

Dopo la mezza sommossa popolare avvenuta a Roma all'inaugurazione di un centro commerciale e le consuete code fuori dagli Apple Store ogniqualvolta un nuovo prodotto appaia sul mercato, è lecito chiedersi a quale livello sia giunto il nostro consumismo, e fino a che punto la società in cui viviamo sia incanalata in modo irrimediabile nell'immateriale. Così come la realtà dello studio non è più affidata allo studio stesso ma al libretto che rappresenta numericamente lo studio, allo stesso modo l'immagine del mondo che abitiamo non è più il mondo stesso, ma la sua ricollocazione digitale, possibile attraverso l'ampia gamma di strumenti tecnologici attraverso cui interpretiamo il nostro presente. Un filtro, una sofisticazione tecnica, modaiola, che varia dall'ultimo iPad fino al frullatore a prezzo speciale. Io non riesco ad essere troppo entusiasta di questo progressivo (e in progressione già da parecchi decenni a dire il vero) spostamento delle scelte umane da un ambito, diciamo così, politico/esistenziale, dove la vita era vera e le scelte erano motivate dai bisogni, ad un recinto di plastica, dove i bisogni sono creati e il referente ultimo di tutto ciò non è più l'uomo stesso, o l'ambiente con cui l'uomo deve fare i conti, ma il mercato di consumo. Nell'ira belluina della folla che si accapiglia per un telefonino, o nell'accampamento notturno di un pugno di ragazzi per una tavoletta di plastica c'è, credo, questo segnale: quello di uno scollamento sempre più marcato tra la realtà e quella specie di iper-realtà ricreata dal consumo in cui ci dibattiamo disperati convinti che sia quella e solo quella la dimensione in cui dobbiamo muoverci e realizzarci. Heidegger parlava di un'umanità impreparata di fronte alle conseguenze della tecnica, ma forse qui siamo un passo oltre, o per meglio dire in una diramazione secondaria del problema posto da Heidegger: la commercializzazione della tecnica. Noi non siamo più noi, ma l'oggetto che possediamo: l'uomo non è più il fine, ma il mezzo, e l'oggetto, cioè il mezzo che prima serviva a soddisfare bisogni, diventa lo scopo finale. E' un'inversione di portata drammatica, già anticipata da Marx in riferimento al denaro, che da mezzo per fare delle cose, diventa il fine per il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione stessa dei beni. Fino al sommo paradosso: il superfluo che si sostituisce all'essenziale. E se non si riesce nemmeno più a capire che cosa sia l'essenziale - cioè il nostro fine - allora significa che siamo nei guai. Di brutto.

i veri eroi


Sembra passato un secolo da quando il Colonnello Gheddafi veniva in Italia da padrone, riverito e onorato come un alto dignitario. C'è una spaventosa e stridente incongruenza tra le immagini di quel trionfo di cartapesta e il pugno allo stomaco delle ultime istantanee, quelle della caduta e del barbaro linciaggio. Sembra passato un secolo, ma in mezzo c'è appena un pugno di mesi: poco più di un anno per passare da ago della bilancia della politica internazionale a povero diavolo sbranato dalla furia del suo stesso popolo. Non voglio entrare nel merito del diritto internazionale, né tantomeno provare a sbrogliare le poco nobili ragioni che hanno portato le democrazie occidentali (Italia in testa) prima a blandire e poi a contribuire ad uccidere l'ex amico. C'è un dato, in tutta questa opaca e terribile vicenda, che mi ha colpito in modo particolare. Ricordo che a Roma, ai tempi della prima visita, Gheddafi era stato accolto come un eroe non solo dal mondo della politica, ma anche da quello accademico, che gli aveva riservato l'onore di una lectio magistralis (o come diamine usano dire loro), giustificandola con una delle solite formule pompose di stampo universitario. Non ricordo esattamente quale fosse la frase. Ho in mente in modo distinto però come fosse stato il Rettore in persona a spendersi per aprire le porte al dittatore. La mia domanda è: dove sono ora tutti questi professori? Dove sono ora questi campioni del libero pensiero? Sapevamo tutti chi fosse Gheddafi ai tempi della sua visita. Non c'erano dubbi sul fatto che fosse un tiranno, eppure era considerato degno di tanti riguardi, mentre una settimana fa è stato lasciato in balia della folla, con qualche frase di circostanza e una forte dose di codardia mascherata da realpolitik. Con qualche sforzo si può comprendere (anche se non giustificare) un atteggiamento del genere da parte del mondo politico, da sempre alle prese con le ipocrisie istituzionali e i cerimoniali stantii, ma il mondo universitario? Questa mistica patria della libertà e del confronto democratico a che gioco giocava un anno e mezzo fa? E ora?

pagine gialle

piccolo spazio pubblicità

Anche il noto giornalista Aldo Cazzullo ha scritto ma soprattutto pubblicato un romanzo. Nell'ambito di una delle molte trasmissioni televisive cui partecipa in qualità di opinionista, presenta la sua fatica letteraria, complice un'indulgente collega. Non è il primo giornalista che scrive un romanzo - quasi che il passaggio dall'opinione politica alla narrativa fosse normale - e temo non sarà l'ultimo. Ma non è tutto. Cazzullo ci informa che scrivere un romanzo non è difficile, che tutto sommato è più complicato scrivere un saggio (alludendo forse alla vasta pubblicistica di giornata con cui ha contribuito ad intasare il mercato editoriale). In un colpo il cronista, opinionista o come si dice ha sgombrato il campo da ogni rovello tecnico e ogni dubbio intellettuale: con la praticità mutuata forse dalla lunga militanza televisiva ha non solo avuto la grave immodestia di ritenersi uno scrittore (immodestia dovuta al fatto che per lui, con ogni evidenza, la scrittura in senso stretto è un di più di cui potrebbe fare a meno) ma anche di impartirci una lezione di alta critica letteraria. E tutto con la leggerezza, con la vaporosa superficialità di una televendita. Ma la vita insegna anche questo: quando si pensa di aver raschiato il fondo, di aver ormai visto da vicino la necrosi del mercato editoriale italiano, spunta sempre un Cazzullo da qualche parte a ricordarti che al peggio non c'è mai fine, e che in fondo la letteratura è solo uno dei tanti settori di mercato a cui un personaggio abbastanza noto può accedere per fare strage di ogni senso del limite e della decenza, arricchendo le proprie tasche e al contempo la già estenuata confusione che regna nella cultura italiana. E' presto per fare previsioni (o forse è già troppo tardi e i cocci ci stanno per piovere in testa) ma tutto indica che nell'ignobile categoria degli istant book, in cui di solito compare la saggistica di risulta, si debba ormai includere anche il romanzo, inteso come oggetto usa e getta. Se non fosse per l'irrisoria quota di mercato (ci siamo tanto imbestialiti da ragionare con la calcolatrice anche in questo ambito) ci sarebbe da temere anche per la poesia. Attendiamo le mosse dei vari cazzulli d'Italia, certi che l'editoria vigente non farà che assecondarli, così come asseconda, di norma, tutto il peggio che le capita a tiro.

spieghiamo bene

Mi sono appassionato alle vicende mediatiche di Federica Pellegrini. Hanno qualcosa di paradigmatico e di sconcertante al tempo stesso. La campionessa di nuoto non vuole portare la bandiera alle Olimpiadi. In termini tecnici mezza giornata in piedi nuocerebbe alla preparazione atletica. Alla luce della pressione cui è sottoposta e delle aspettative nei suoi riguardi, ha il diritto di dirlo, anche se forse una presa di posizione del genere, qualche anno fa, non sarebbe stata tollerata. Amen, c'è di peggio. La preparazione dovrà rovinarsela qualcun altro. La nuotatrice avanza anche qualche candidatura, bontà sua. Ma il bello deve ancora venire. Non c'è bisogno di ricapitolare le puntate precedenti della soap: amori, disamori, feste, calendari, tatuaggi, ripicche, gelosie, tradimenti. Ora andiamo un po' più a fondo nella vicenda: "Ma se restassi incinta, rinunceresti alle Olimipiadi?" E qui il capolavoro. "Beh, spieghiamo bene" l'esordio "allora, prendo tutte le precauzioni del caso, ma anche con la pillola c'è quello zero virgola uno percento di possibilità. Dovesse capitare, sarebbe destino. E sicuramente non abortirei per un'Olimpiade." Era in effetti il caso di spiegarla bene questa cosa, casomai ci fosse sorto un dubbio. Dunque: sappiamo con chi si accoppia, quanto si accoppia, con chi si accoppiava e anche a quali metodi contraccettivi si affida. Il tutto con spigliatezza e allegra disinvoltura. E' una dote da invidiare. Avevo il sospetto che questo accanimento nei confronti della vita privata di una ragazza fosse una delle tante e subdole manovre di accerchiamento dei media gossippari. Un modo per sfruttare la vita di una persona, mettendola in piazza. Adesso mi rendo conto che le cose non stanno esattamente così; i media cattivi, d'accordo. Ma anche l'ambizione smodata e un po' cialtrona di una provinciale di successo, che nel volgere di qualche anno ha capito come rivoltare la situazione a proprio vantaggio, usufruendo di giornali e clamori mondani per promuoversi, per pubblicizzarsi come uno dei tanti prodotti disponibili nel mercato dell'immateriale. Non c'è niente di male, dirà qualcuno. Anche scendere nel dettaglio ginecologico (dopo quel memorabile exordium: "Spieghiamo bene") non è peggio di un pomeriggio televisivo sulle reti nazionali. E il pubblico si adegua. In balia dello sconfortante e sempre più macroscopico equivoco secondo cui alle doti mediatico/sportive debba in qualche modo corrispondere anche una dote intellettiva superiore alla norma. Attendiamo con impazienza esami del sangue, eventuali ecografie, bollette, biglietti del tram, marche di assorbenti etc.

nobile Nobel


Premio Nobel ad un signore svedese chiamato Tomas Transtromer. Non ho mai letto niente di suo, come la maggior parte dei lettori del globo. Questo non mi fa onore, tutt'altro. Sono già spuntati i sapienti a gettone, quelli che emergono dalle spelonche universitarie per dire "Io lo conoscevo, meritava il Nobel e voi siete degli ignoranti". Ignorante, lo sono di certo. Il poeta Transtromer è sicuramente bravissimo. Ma sconosciuto. Cosa che di per sé non è una colpa, tutt'altro, ma che sta a testimoniare che la sua opera è stata poco condivisa dall'umanità (ed è di umanità che si deve parlare quando ci si riferisce ad un Nobel), e che di conseguenza è entrata poco in circolo nel sistema vascolare delle lettere mondiali, e quindi delle nostre vite. Un Nobel la cui esperienza sia di nicchia, è un Nobel che non ci rappresenta. Chi lo dice che ci debba rappresentare? Potrebbe tuonare un professore. Ma nessuno, naturalmente. Solo che in una patria letteraria sempre più confusa e caotica non sarebbe male vedere premiata l'opera di un autore il cui senso ultimo sia lo sforzo collettivo di una generazione: sarebbe un bello scambio simbolico. Così come ad esempio Hemingway e Montale hanno rappresentato qualcosa nella società del loro tempo, e hanno incarnato, con il loro messaggio, non i pruriti di qualche studioso, ma il sangue di un'intera epoca. Ma i premi Nobel vanno presi per quello che sono. Se scorriamo banalmente la lista degli insigniti, accanto a qualche grande nome, incontriamo una caterva di sconosciuti. Sì, di sconosciuti. Ossia di scrittori magari degnissimi ma che per un motivo o per l'altro non hanno bucato le pagine da loro scritte, fermandosi nella polla stagnante di una risonanza modesta. Con questo non voglio dire che sia il successo a decretare il vincitore, ma che l'affetto della gente è un elemento importante per giudicare in una prospettiva storica la qualità di un'opera. Un'opera di alta qualità tecnica incapace di penetrare gli strati a lei più distanti è un'opera sostanzialmente sterile. La lista di Nobel è piena di questi nomi, oggi come ieri. Anzi, direi che i nomi di ieri sono ancora più importanti: sono quelli che non sono stati in grado di superare la barriera di qualche anno. Il Nobel per la letteratura ha sempre premiato se stesso più che l'autore: è una realtà che va accettata serenamente, insieme alle molte altre storture che accompagnano da sempre la fissità di molte istituzioni ritenute non si sa a che titolo intoccabili.

farewell Steve


Non starò qui a stendere uno dei tardivi e sperticati necrologi per la dipartita di Steve Jobs. E' inutile stare qui a riepilogare i suoi grandi meriti, la sua preveggenza, la sua capacità imprenditoriale. Mi piace ricordare Jobs come un mago dell'immateriale, come un uomo che è stato in grado prima e meglio degli altri di interpretare le possibilità dell'informatica prima e di internet poi, facendolo con creatività e coraggio. Era la faccia buona dell'establishment americano, la mente generosa che ci permetteva di lavorare e di svagarci meglio, che metteva a disposizione la sua sapienza tecnica per consentirci di vivere con un po' più di colore e bellezza nelle pieghe spesso grigie e catatoniche del digitale. La sua arte era costruttiva, positiva, propositiva, laddove l'impresa americana, specialmente negli ultimi tempi, si è contraddistinta più per pastrocchi finanziari e castelli per aria che non per idee e sperimentazioni. Lascia un'eredità complessa il guru della Apple. Un'eredità ancora tutta da capire e da decifrare. Un tesoro fatto di passione ma anche di concretezza, ed è tutto da vedere se chi lo sostituirà sarà capace di farlo con altrettanto successo e altrettanta lungimiranza. Perché fino ad ora è stata la Apple a dettare le tappe e a scandire gli appuntamenti mentre la concorrenza si è sempre trovata, talvolta in modo quasi comico, a dover inseguire, a pasticciare con le applicazioni, a plagiare spudoratamente. Non sono un fanatico Apple, ma un utente, e come tale mi piace riprendere la bella espressione usata anche da Vittorio Zucconi su Repubblica: non ho conosciuto di persona Steve Jobs, ma è come se avessimo lavorato insieme. E, posso aggiungere, ci ho lavorato anche bene.

talk!

La ciarla televisiva, in Italia, non manca. Il così detto talk, il dibattito, il confronto, è un format in netta ascesa. Due o più contendenti di opposta idea politica che si contrappongono: bianco, nero, addizione, sottrazione, più, meno. E' una gara di contrari. Uno dice una cosa, l'altro risponde con il suo opposto. Il conduttore non fa troppe domande, lascia spazio agli slogan. Che cosa sia vero e che cosa sia falso è un dettaglio di cui sembra non importare niente a nessuno. Nel dibattito tra politici e tra giornalisti che appoggiano l'uno o l'altro schieramento, l'argomentazione è stata eliminata, sostituita da un giochino a base di autocitazioni, luoghi comuni, baggianate, ovvietà. Parole cardine attorno a cui ruotano le odierne supercazzole: crescita, crisi, globale, paese (onnipresente), spread & default (new entry di cui sono abbastanza convinto la gran parte dell'attuale classe diriggente ignori il significato) ma anche responsabile & irresponsabile, o concetti altisonanti quali legittimità e conti pubblici, o per contro formulazioni ipocrite e cialtrone come cene eleganti e escort. Ognuno può aggiungere quello che meglio crede, il risultato non cambia. Ore e ore di trasmissioni, dirette, telegiornali per arrivare ad una brodaglia indistinta, dove il senso delle parole è andato annacquato e perduto, disperso nei mille rivoli di una retorica da strapazzo creata ad arte per confondere, mischiare le carte e infine suonare vuota. Perché il centrosinistra non riesce, una buona volta, a svoltare nei confronti di una compagine di governo da tempo alla deriva? Anche per questa ragione: per la mancanza di argomenti forti, per l'assenza di un pensiero determinante, chiaro, capace di coinvolgere le persone. Non si spiega in altro modo l'aver perduto e il continuare a perdere contro una forma di potere così sgangherata, misera, debole, idiota, laida come il berlusconismo. Con il suo repertorio di frasi fatte, promesse da televendita e conformismo. Il non riuscire a dimostrarsi migliori di questo sbaraglio, mi dispiace dirlo, è una grossa colpa. Non solo perché prova provata di sconcertante incapacità, ma anche perché germe di un sospetto ancora più grande e indicibile: che sia una forma larvata di complicità? Una forma di tacito accordo in nome della conservazione dell'establishment? Ricordiamoci della grande dimostrazione di democrazia, capacità organizzativa e coesione data pochi mesi fa con le elezioni amministrative e i referendum: quel patrimonio è già stato dilapidato.