stati di morte apparente

E' bastata una frase detta tra il sonno e il dormiveglia da sua maestà Philip Roth per mandare in confusione il sempre più fragile sistema nervoso delle lettere mondiali: "Non leggo più narrativa". Apriti cielo. Carrellata di ovvietà e rimasticature dei più penosi luoghi comuni: il romanzo è morto, la letteratura è morta, e via di questo passo. Peccato che la favola del romanzo agonizzante ci perseguita da almeno mezzo secolo, se non di più. Sembra che ognuno abbia qualcosa da dire, mentre le librerie traboccano di roba e il popolo dei lettori si infoltisce. Si potrebbe fare un discorso sulla qualità del prodotto - sempre più bassa - ma non sulla quantità, che nonostante crisi e controcrisi è in costante espansione. Non è la modalità romanzo ad essere in declino, ma la sua composizione organica: da materiale pregiato a salsicciotto imbottito di scarti. Come nelle peggiori storie di svalutazione delle monete e di crisi economica il metallo nobile viene via via sostituito da leghe di poco prezzo. Stessa cosa per la forma romanzo, sempre più spesso svalutata da scelte editoriali vili e deprimenti, che penalizzano la sperimentazione a favore di strade sicure e ignobili, come i romanzetti di genere, la pubblicistica generazionale e in generale tutto ciò che può servire a rassicurare la pigrizia di tanti lettori. Questo sarebbe il tema forte di cui occuparsi, che è un problema eminentemente editoriale più che letterario. E invece no, si beve come nettare lo sfogo senile di uno scrittore che per quanto grande è ormai a fine carriera. Parliamo del futuro: dove vogliamo andare? Qui nessuno risponde. Qualche altra storia sui vampiri? Qualche altro libretto sui call center? C'è un silenzio assordante. Ma è un silenzio assenso: l'andamento dell'editoria parla chiaro. E il peggio, forse, deve ancora venire. 

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