La poesia non serve a niente

Dallo strapotere di cui ha goduto per secoli e millenni, la poesia si trova oggi a vivere come una sorta di esiliato in casa, di parente scomodo della letteratura. Parlando sia con gli addetti ai lavori che con i meno attenti all'argomento ho trovato in genere reazioni unanimi: di poesia non frega niente a nessuno. Non se ne parla, non se ne conosce, non se ne consuma. Per poesia si intendono messaggini amorosi, romanticherie svenevoli, chiari di luna e tramoni da cartolina, più qualche riminiscenza scolastica mal digerita e, nel migliore dei casi, un po' di cascame in stile L'attimo fuggente. Curioso, perché di poesia o pseudotale se ne assorbe una quantità smodata e irragionevole da ogni parte, specie dai canali televisivi e mediatici in senso lato. Poesia per pubblicizzare un cioccolatino, poesia per vendere bibite, poesia per ogni genere di occasione. Con il risultato di esserci persi tra le parole e i loro significati, senza una bussola. La poesia è una vergogna. Chi la legge, come me, è costretto a vergognarsene un poco, a doversi giustificare, a dover arrossire e specificare in modo frettoloso e imbarazzato che tutto sommato si tratta di un viziuccio innocuo, che non fa male a nessuno. Meglio non dirlo troppo in giro, si corre il rischio di andare incontro a conseguenze. Perché? Non ho risposte, anche questa volta. Non lo so. Se ne è perso per strada il valore, non se ne conosce più il peso specifico. L'elemento poetico, tolto dal suo contesto e consegnato alla barbarie della comunicazione di massa, è andato incontro ad un deprezzamento progressivo e fatale, in un crescendo irreversibile. Non si torna indietro, a meno di non rivedere il nostro alfabeto di massa e le sue modalità espressive sempre più imprecise e populiste. Forse, anche il fatto di aver demandato il compito di diffonderla e farla apprezzare alla scuola (come per molte altre espressioni umane, non solo letterarie, vedi la musica per esempio) è stato un errore e insieme un'aberrazione. A chi parlare di tutto questo? Ad un professore? Al nostro ministro della Pubblica Istruzione? Al nostro ministro dei Beni Culturali? Immaginiamoci la scena. Ho strappato una risata?

L'amico extraterrestre, di Gabriele Sannino

NUOVO POST PER READER'S BENCH:


La mia prima recensione su commissione. 

stati di morte apparente

E' bastata una frase detta tra il sonno e il dormiveglia da sua maestà Philip Roth per mandare in confusione il sempre più fragile sistema nervoso delle lettere mondiali: "Non leggo più narrativa". Apriti cielo. Carrellata di ovvietà e rimasticature dei più penosi luoghi comuni: il romanzo è morto, la letteratura è morta, e via di questo passo. Peccato che la favola del romanzo agonizzante ci perseguita da almeno mezzo secolo, se non di più. Sembra che ognuno abbia qualcosa da dire, mentre le librerie traboccano di roba e il popolo dei lettori si infoltisce. Si potrebbe fare un discorso sulla qualità del prodotto - sempre più bassa - ma non sulla quantità, che nonostante crisi e controcrisi è in costante espansione. Non è la modalità romanzo ad essere in declino, ma la sua composizione organica: da materiale pregiato a salsicciotto imbottito di scarti. Come nelle peggiori storie di svalutazione delle monete e di crisi economica il metallo nobile viene via via sostituito da leghe di poco prezzo. Stessa cosa per la forma romanzo, sempre più spesso svalutata da scelte editoriali vili e deprimenti, che penalizzano la sperimentazione a favore di strade sicure e ignobili, come i romanzetti di genere, la pubblicistica generazionale e in generale tutto ciò che può servire a rassicurare la pigrizia di tanti lettori. Questo sarebbe il tema forte di cui occuparsi, che è un problema eminentemente editoriale più che letterario. E invece no, si beve come nettare lo sfogo senile di uno scrittore che per quanto grande è ormai a fine carriera. Parliamo del futuro: dove vogliamo andare? Qui nessuno risponde. Qualche altra storia sui vampiri? Qualche altro libretto sui call center? C'è un silenzio assordante. Ma è un silenzio assenso: l'andamento dell'editoria parla chiaro. E il peggio, forse, deve ancora venire. 

il talento è dire no


Non si può continuare a pensare (o per meglio dire a illudersi) che l'uso delle parole sia innocuo e che non nasconda dietro le sgargianti vesti pubblicitarie una specie di disegno o se si vuole di titanica opera di autoconvincimento. Prendiamo una parola, una parola di gran moda: talento. E' quasi incredibile come un termine così generico e all'apparenza inoffensivo celi dietro di sé una trama di potere spaventosa e penetrante, illusoria e fatiscente: il mito del talento, del fuoriclasse, del genio che è in noi ha un retrogusto falso e ipocrita, che sa di cattiva letteratura, di pessima televisione. Così come il fascismo voleva far credere ad ogni cittadino di essere un guerriero, la società dei consumi del 2011 vuole farci sentire tutti dei cantanti, del ballerini o, nella versione più sofisticata, degli scienziati, degli ingegneri, dei "cervelli", riducendo tutto ciò che siamo, tutto ciò che proviamo e ci piace pensare della nostra vita alla nostra funzionalità produttiva, alla materia più immediatamente "spendibile sul mercato". La mia personale sensazione è che l'evocazione mantrica del talento sia l'equivalente laicista di una preghiera detta in malafede. E a questo punto mi vengono in mente due ipotesi: la prima è che il talento sia un'arma impropria di massa (l'ennesima) con cui tenere buona la folla, inoculandole la falsa speranza di avere in sé i germi per svoltare; la seconda è che siamo davvero al lumicino, non sappiamo più che cosa dire, al punto che il medium di massa televisivo (ma anche internet fa la sua parte in questo) non ha saputo far altro che inventarsi questo nuovo pupazzo, nel tentativo di salvare dal cortocircuito la capra e i cavoli, l'establishment putrescente che governa l'Italia e la possibilità di generare al contempo una riserva a cui attingere in caso di emergenza. Fatto sta che termini come "talento" ma anche come "eccellenza" sono ormai la spia linguistica evidente di un processo di depensamento in fase già molto avanzata, dove la scelta individuale, la capacità personale e tutto quel corredo culturale e cromosomico che risponde al nome di personalità è stato progressivamente assorbito da una direttiva superiore, astratta, imposta non si sa bene da chi, se da una fantomatica eminenza grigia o se piuttosto non sia l'espressione tragicomica e barbara di una nuova eugenetica, a base talentuosa. 

Meno di zero, di Bret Easton Ellis

Nuovo articolo per Reader's Bench

i finti riformisti


Pochi giorni fa, in parlamento, si assisteva all'ennesimo scempio, ovverosia all'accanimento terapeutico nei confronti delle Province. L'ente inutile per eccellenza. L'agglomerato burocratico in bilico dai tempi della Costituente, che avrebbe dovuto essere abolito con l'avvento delle regioni a statuto ordinario, nel 1970. Non solo non sono state eliminate, sono raddoppiate in questi 40 anni abbondanti. Il centrodestra, tra le varie promesse non mantenute, aveva sbandierato di volerle togliere di mezzo. Ma siamo abituati alle loro bugie: hanno votato in massa perché rimanessero dove sono. Idem il Pd. Mi dispiace dirlo, ma il Pd ha commesso un'azione vergognosa. A freddo, ne capisco le ragioni, che non sono nobili. Le province, nonostante tutto, sono un'espressione di potere. E di poltrone. Il Pd ne detiene 40. Perché rinunciarci? Un posto di potere, fosse anche una portineria, è pur sempre un posto di potere. Ci si piazzano uomini, si sistemano amici, si fa apparato, vecchia, grande stortura ereditata dal Pc di cui il Pd non riesce a sbarazzarsi. Forse perché non vuole farlo. Tutti si riempiono la bocca con la parola "riforme" ma la verità è che nessuno vuole farle, nemmeno quel partito che per antonomasia, per cultura, per ambizione dovrebbe essere progressista: il Partito Democratico. La verità è che l'apparato rappresenta una garanzia troppo forte e radicata perché possa essere eliminata, e i partiti non vogliono farlo. Se il Partito Democratico continua su questa strada incerta e ambigua, allora merita di perdere. Merita l'ennesima rinascita del berlusconismo, magari sotto le mentite spoglie di un leader di facciata. Perché il Pd - che in queste settimane avrebbe potuto e avrebbe dovuto - non ha fatto niente. Ha vinto senza volerlo e senza crederci le elezioni a Milano e a Napoli (con due candidati non suoi), ha vinto con i referendum, che aveva osteggiato e deriso fino a quando non ha potuto fare altrimenti. E poi si è fermato. L'elefante si è impantanato. In preda alla paura. Di se stesso, del mondo, di Berlusconi. E chi si fa paralizzare dalla paura, perde. Peccato, perché i milioni di elettori del Pd non meritano questa fine. 

parola di Trota



Ho ascoltato, rapito lo confesso, l'ormai celebre monologo in cui il Trota si lancia in una lectio sul Web 2.0. Non ho voglia di infierire su un ragazzo in chiara difficoltà, vittima già del pubblico (e in gran parte meritato) ludibrio quotidiano e in lotta con un linguaggio finto tecnico politichese che con tutta evidenza poco gli si addice. Non voglio nemmeno soffermarmi più di tanto sullo squallore della sua prosa, sui (pre)concetti raffazzonati, sugli strafalcioni, sulla qualità infima del girato. Mi piacerebbe forse sapere che c'entrano i social network con la diffusione delle realtà locali "in opposizione alla logica della globalizzazione", e che cosa il Trota intenda dire quando propone internet come "un volano per ritornare a quell'iperlocale" ma credo che tali affermazioni vadano ricondotte alla generale sensazione di disagio mista a insulsaggine che trapela dal video. Il punto è un altro. Veramente questa spasmodica e ossessiva ricerca di una piccola patria rappresenta tutto ciò che la Lega è in grado di offrire al Nord per gli anni a venire? Da abitante di questo nord, ho i miei dubbi che sia questa la strada da imboccare, di sicuro non voglio che la Lega (e il Trota) parli anche a nome mio, che pure di questo popolo "nordico" (curioso, visto che comunque siamo sud Europa) faccio parte. Siamo in tanti a pensarla così. Negare l'apertura al mondo è negare la storia dell'umanità, che di certo non si è formata grazie ad arroccamenti e chiusure. Tentare anche solo di individuare il futuro della rete nella diffusione delle notizie locali (o iperlocali, per dirla in trotesco) non solo è comicamente riduttivo, ma anacronistico: il web non solo già assolve a questa funzione, ma è per sua stessa natura ben oltre, dove l'identità di ciascuno è abbastanza forte da non avere paura di chissà quale contaminazione letale. 

chi ha paura di Céline?






Céline sì, Céline no. Grande artista, schifoso antisemita. Sì, però; no, ma anche. In Francia, paese d'origine dello scrittore, ne è nata una polemica niente male, che si è infiammata nei primi giorni luglio, in concomitanza con i 50 della morte di Louise Ferdinand Auguste Destouches, in arte Céline. Sbrogliare la matassa è ancora una volta difficile e insidioso. Ci troviamo di fronte ad una delle pietre angolari del Novecento letterario: insieme a Joyce, Proust, Pound, tanto per dire. Viaggio al termine della notte è senza dubbio uno dei cinque, dieci libri destinati a durare, a rimanere, uno dei libri indispensabili, che serviranno ai posteri per comprendere l'assurdo novecentesco. E' un libro che mischia creatività e biografia, ma che soprattutto rinnova il linguaggio, inventando un'espressività che non è minimalismo anglosassone, ma nemmeno ipetrofia proustiana: è un unicum. Di coraggio e pazzia, scelleratezza e precisione. Se dovessi indicare un autore che è veramente andato al fondo delle cose, che si è sporcato di sangue e merda, di fango e polvere, non potrei che indicare Céline. Perché lui certe esperienze le ha fatte, e poi raccontate. Non tutti possono dire di aver fatto altrettanto. Medico dei diseredati, ultimo tra gli ultimi, senza alibi borghesi o protezioni di comodo. Certo, anche tre libelli antisemiti e un'adesione al nazismo mai ritrattata: un mostro dunque. Strano. Mi viene da dire proprio così: strano. Perché nel Viaggio non ci sono avvisaglie. E' un capolavoro che un nazista non sarebbe mai stato in grado di capire, sia per intensità emotiva che per pietas, per genialità degli scenari e per disperazione di fondo. Chi era Destouches? Siamo davvero sicuri di conoscerlo abbastanza? Non riesco a formulare un giudizio, anche solo letterario. Siamo in presenza di un quadro troppo frammentato. Di certo è pericoloso giudicare un artista confondendo la sua vita e la sua opera: mi si potrà obiettare che è Céline stesso a mischiare le carte. Forse. Ma a questo punto evitiamo ipocrisie e prendiamo in considerazione solo l'aspetto funzionale alla comprensione estetica dello scrittore. Altrimenti altri nomi importanti potrebbero essere scomodati: dal professor Heidegger all'eroe nazionale Pirandello. E devo aggiungere un sospetto finale. Una civiltà che ha paura di attribuire i dovuti meriti artistici ad un antisemita dichiarato (ancorché sui generis come Céline) potrebbe anche essere una civiltà immatura, che ha forse più paura di se stessa che di uno scrittore povero e solo morto cinquant'anni fa. 

hot, sexy & Co.

A volte tende a sfuggirmi la potenza subdola ma penetrante della cronaca gossippara. A volte mi fermo a osservare le riviste in qualche sala d'attesa, mi assalgono news varie ed eventuali su qualche innocua piattaforma di posta elettronica o su qualche sito che all'apparenza dovrebbe trattare di tutt'altro. Schiere di sconosciuti, di mezzi divi, di false dive. Chi paga? Chi sono queste persone, che fanno? Sono elementi di un ingranaggio insensato. Chi paga? Noi. In un modo o nell'altro questo baraccone saprofita succhia risorse da una vasta schiera di utenti, consapevoli e non. Non producono niente, né in termini materiali né culturali, ma sono retribuiti, alimentano una rete di interessi. Come spesso avviene in queste trame sgangherate, il ridicolo irrompe spesso e volentieri in scena (ed è il ridicolo nella sua forma più pura, quella involontaria): i vip in mutande in spiaggia. Mi è capitata una rivista per le mani, che ho sfogliato con l'occhio di un etologo dilettante: pagine e pagine di gente in costume da bagno, spiaggiata sul lettino, vippame nella sua posa più meschina e larvale, dove il culo, la tetta giace ammosciata sulle rive di un intervento estetico riuscito a metà, o al contrario svetta innaturale nella melma biancastra della crema solare. Ma come fa la gente a interessarsi di questa roba? Io, veramente, non so che cosa rispondere. Forse un processo di identificazione, forse un'insana voglia di sovrapporre il generale squallore dell'esistenza allo squallore di queste tremende foto patinate. Senza contare il martirio linguistico: hot, sexy, hard, cool. Caldo, sessualmente stimolante, duro e fresco. Ma si può essere ridotti peggio di così? L'inflazione ormai dilagante di questo sotto sottogenere è forse il lascito culturale più duraturo del berlusconismo, la trovata più bestiale e insieme più efficace del suo impero di carta straccia: non serve un sociologo di fama per andare a capire chi sia l'ispiratore e il deus ex machina di questo tipo di editoria, sia su base cartacea sia a mezzo televisivo. E questa degenerazione è forse il massimo a cui questa strampalata corrente di (anti)pensiero rubricata sotto il nome di berlusconismo possa ambire.

racconto vagamente personale

E così anche stasera sono stato rapito dal solito mix musicale che da qualche settimana a questa parte mi sta ronzando nelle orecchie; un infuso di Paolo Conte, Velvet Underground, The Doors, Tom Waits, Joy Division che non so attraverso quali canali si è magnetizzato nella mia esigua riserva di mp3. Sto tentando di chiudere un racconto ambientato in un garage tratto da una storia vera. O era un sogno? Mah... I racconti hanno questo difetto: ti lasciano troppo presto, come un'amante. I romanzi qualche volta non ti si tolgono più di dosso, come una moglie diventata molesta. Sono tutte cose che mi dico quando fisso il bianco opaco dello schermo, fermo sulla pagina che provo a scrivere.

Non ascolto musica quando batto sulla tastiera, e non so bene perché, forse già il rimbalzare dei polpastrelli è sufficiente, non so. Ma non è questo il punto. Mi sono iscritto all'ennesimo concorso, in cui mi si chiede una consistente quota associativa (ed è gustoso leggere "a parziale copertura delle spese di segreteria", come dire, se ti sfiliamo appena 20 euro è per farti un favore). Non so che mandare: trabocco di storie e racconti, non so nemmeno più quando né come li ho scritti, sono tutti accumulati negli anfratti del disco rigido, nelle friabili chiavette usb, nei quadernetti stipati nelle scatole delle scarpe (ho scoperto che anche Pietro Citati fa così).

Insomma, qualche cosa dovrò prendere e imbustare, con la residua carica di aspettativa ridotta ormai al cero smozzicato di una chiesa poco frequentata. Ma quando è cominciato tutto questo? Non lo so, anzi lo so benissimo. Quando smisi di essere mentalmente presente a scuola per scrivere il mio primo racconto, che ancora conservo come una delle cose migliori che abbia fatto in assoluto. E' lì che è cominciato l'inghippo. Era una storia che parlava di ritorni e di incomprensioni, di distanze e di segreti.

Sunday morning brings the dawn in, it's just a restless feeling by my side. Ascolto canzoni che bene che vada hanno trent'anni, non me ne frega niente delle novità, e mi crogiolo in questo passato collage che non mi appartiene - non ero nemmeno nato - e che tanto rispecchia lo stesso rapporto malandato che ho con la letteratura. Eppure tutto questo insieme di reperti racconta me stesso molto di più, che so?, di Lady Gaga. Dio sia lodato. Come si fa ad essere contemporanei e pretendere di ritrovare l'Arcadia, e per di più combinando e lambiccando gli elementi più eterogenei? Sono le domande di queste ore. Insieme al mal di testa, che ha gentilmente preso il posto della nausea. Un gelato al limon mentre un'altra estate se ne va, libertà e perline colorate, ecco il dono che io ti farò (...) e ti offro una doccia ai bagni diurni, che sono degli abissi di tiepidità. Quando mi fu consegnata la scrivania fatta su misura alla quale lavoro abitualmente da un paio d'anni, mi ero ripromesso di tenerla in ordine, e grossomodo ci sono riuscito.

Libri a parte, che crescono ovunque come una vegetazione malata, o come le barriere di un ultimo ridotto, le fortificazioni di un bunker. Difficile farne a meno di questi prendipolvere depositari di cultura; mi convertirò anch'io al Kindle o chi per esso, ma so già che mi ci vorrà un po'. Balzac, Aristotele, Flaubert, il mitico libro intervista di Orson welles occhieggiano dalla superficie levigata del legno, e li ringrazio, e me li godo, e ringrazio. Per cambiare argomento: ci sono dettagli minuti che ricordo alla perfezione, episodi di quando avevo quattro o cinque anni, e per contro ci sono ampi spezzoni molto più recenti che ho praticamente cancellato; forse scrivo anche per colmare questi vuoti, non so.

Alle volte credo che il processo creativo altro non sia che un esercizio rabdomantico nei confronti di se stessi. Come in una ricerca del mondo perduto, del porto sepolto, della patria lontana, si fruga nel privato, nel rimosso, o forse, senza scomodare la psicanalisi, nel non detto delle cose. Quanti strati nebulosi abbiamo compressi nelle pieghe del carattere? Non tutto è materia di scarto. Ci sono doni lì dentro che possono cambiare la vita se si ha la pazienza di passare la polvere. I am tired, I am weary, I could sleep for a thousand year.

metamorfosi Strauss - Khan

L'appannata vicenda Strauss Khan sono riuscito a leggerla solo in chiave romanzesca. In una palude di vaghezze e imprecisioni, di detti e contraddetti, ciò che è evidente - e in qualche modo inconfutabile - sono solo i fermo immagine che hanno accompagnato questo fatto di cronaca. Il ceffo fresco di arresto, con tanto di impermeabile da duro e aria stazzonata, il leader che imposta personalmente la linea di difesa, la vecchia volpe che sfila come su un'improbabile croisette al fianco della moglie nel giorno della liberazione. Sono immagini che faccio fatica a ricondurre ad una sola persona: solo elementi diseguali che non combaciano, tessere sparpagliate che in comune hanno solo un nome. Nemmeno una fisionomia, che è cambiata e si è modellata quasi ora per ora. Colpevole? Innocente? Vittima di una macchinazione o gran burattinaio? Non lo sapremo mai. Uomo dalle mille risorse, economiche ma anche caratteriali, questo è certo. In lui vedo un grosso potenziale narrativo: è un duro in un romanzo hard boiled, un attempato Lucifero, ma anche un personaggio stendhaliano, gran signore e gran furfante, simpatico scavezzacollo e astuto calcolatore. C'è di tutto in Dominique Strauss - Khan. La sua figura si arricchisce di tratti che hanno più a che vedere con il romanzesco che con il cronachistico: la sua parabola rientra in un filone che solo con grande fatica può essere ancora contenuta nell'angusta fraseologia giornalistica. Il suo carattere deborda, esce dagli argini, insinua dubbi, seduce con quel non so che di impunito che alberga nello sguardo. I soldi, certo, ma anche la tattica, la capacità di continuare la mano anche quando le carte dicono male; in Strauss - Khan astuzia da giocatore e prepotenza da intoccabile si confondono in modo pericoloso. Lo vedi sfatto la sera dell'arresto, lo ritrovi in tenuta da combattimento qualche ora dopo, durante la prima udienza. Sembrava finito, è risorto. Il mondo gli ha sputato in faccia e lui se l'è cavata con una scrollata di spalle, con una combinazione affascinante e tremenda di sangue freddo e ostentazione, autocontrollo parossistico e piglio da primo della classe. Lo avevamo dato quasi tutti per spacciato, e nel giro di qualche settimana ci ha instillato un'incertezza. Una sola. Che nella patria del ragionevole dubbio pesa come un macigno. E un triste sospetto: che i soldi abbiano vinto anche questa volta.