rileggendo gli Ossi di seppia di Eugenio Montale

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l'arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e la muraglia, e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

Leggo sempre con una certa emozione le poesie di Montale. Riprendendo in mano gli Ossi di seppia, il capolavoro per eccellenza della poesia italiana del Novecento, non ho potuto fare a meno di sentirmi coinvolto in un atto di devozione che andava ben oltre la mia persona, e che abbracciava qualcosa di più esteso e possente: una mistica, un suono, quel significato ultimo che la letteratura riveste, al di là della sua schematizzazione e di ogni tentativo di definizione strutturale. Gli Ossi di seppia appartengono a ciascuno di noi. Sono pietre lavorate dalla risacca, preziosi semi sul cammino da un uomo d'arte che è stato attraversato dal sentimento artistico. Il Montale degli Ossi resta insuperato, anche da se stesso. In quella raccolta ha espresso il meglio di sé, con la dolorosa consapevolezza di chi ha afferrato il non senso delle cose e che pure, di fronte al Mediterraneo e al suo paesaggio aspro, trova ancora la forza di meravigliarsi e di lasciarsi attrarre. Sono paesaggi impervi quelli degli Ossi. Sono liguri, riarsi, consumati dal salso e dal vento: non sono una patria, ma un luogo mentale e fisico insieme; sono la regione degli abbandoni e dei languori, dove la vita - questo giro di carte truccate - riflette bagliori di infinito sulla superficie del mare "vasto, diverso e insieme fisso". Montale abbraccia idealmente questi luoghi, li abita, vive le arsure e "la buona pioggia di là dallo squallore", ma senza compiacimenti: il poeta è affacciato ai suoi stessi occhi, testimone atterrito, impotente, ora ammirato ora sconvolto. Lo spettacolo di questa mobile fissità richiede tempi e allenamento, capacità di vedere oltre la polvere e di trarne la linfa; la presenza discreta del testimone si risolve nella compenetrazione della natura, e con essa del mondo. Siamo di fronte ad un tentativo, immenso e sfuggente, di ripresa delle tematiche e dello stampo classico: quelle rime a mezzo, imperfette, spigolose, quel lessico aguzzo come i cocci di bottiglia di cui parla, tagliente, scabro, votato alla sensibilità delle cose, rappresenta un unicum, un tentativo rimasto ineguagliato. Non si tratta di ermetismo, non s tratta di naturalismo, meno che mai di simbolismo. Siamo di fronte ad una poesia che non ha bisogno di patenti per dirci la sua grandezza.

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