il club dei migliori

Lettera al noto inserto di un noto quotidiano. Scrive un giovane. Nome, numero di matricola, curriculum, e un sottinteso: sono bravo. Oggetto della missiva: mio Dio, come sono tristi i miei coetanei, come sono pigri, come sono incapaci di provare rapporti veri, come sono assuefatti ai social network, come sono incapaci di sopportare lo sforzo fisico (sic). Risponde dalla sua comoda poltrona il giornalista addetto alle lettere: bravo, mi dai un segno di speranza, i giovani d'oggi non sono tutti uguali e così via. Ecco, io credo che finché manterremo questo atteggiamento mentale (e con il noi generico intendo tutti quelli che si oppongono alla deriva del berlusconismo senza necessariamente essere dei comunisti) saremo condannati a perdere sempre. Non solo alle elezioni, ma anche in qualsiasi contraddittorio. Perderemo perché paradossalmente abbiamo abolito la categoria del dubbio, perché partiamo dal presupposto che abbiamo ragione e basta. Anzi, di più: dal presupposto che siamo migliori, che abbiamo abitudini più sane e che quindi deteniamo con naturalezza un'indiscussa superiorità. Non è la prima lettera che leggo in cui a trasudare è questo buonsenso della nonna, questo unguento appiccicoso che sa di compiacimento, e la ragione è tutto sommato semplice: è un sentimento che serpeggia per davvero in certi tipi umani, ma è anche il miglior lasciapassare per la sconfitta. Perché mai un giovane dovrebbe prendere carta e penna e scrivere ad un giornale amico delle scemenze del genere? Per una sola e unica ragione: per farsi dire che è bravo. Siamo al complimento della maestra allo scolaro meritevole o giù di lì, e il problema, o ancora meglio il vero movente è un assoluto bisogno di essere consolati, guidati, confermati nelle proprie intenzioni. E finché il giochino è limitato a chi la pensa come noi, potremmo anche andare avanti all'infinito: io mi complimento con te, tu con me, e come siamo intelligenti, e che bei ragionamenti che facciamo, magari fossero tutti come noi. Fino a ridursi come i premi letterari o quelli cinematografici, dove sono sempre gli stessi a premiarsi a turno. Dispiace dirlo, ma quella del compiacimento è una malattia genetica tipica della sinistra, causa primitiva di invidie, divisioni, piccinerie, ma anche di fatiscenti salotti a base di caviale e salmone, di combriccole dei migliori e di colpetti di gomito tutte le volte che un (supposto) esponente della propria parte ottiene qualche successo (come non so, Bertolucci che viene premiato a Cannes, e va bene: ma mica significa che anche tu che sei sotto la copertina a guardare Fazio abbia qualche merito). E avanti così allora, che tanto non ci batte nessuno, signora marchesa, gradisce ancora un'oliva?

la confessione

Ed è così che con l'ennesima giravolta, sua maestà il Premier è riuscito, con il consueto sprezzo della decenza, a capovolgere la frittata e a confessare in mondovisione il delitto: sì, il referendum lo abbiamo tolto di mezzo perché poteva dirci male; voi italiani siete una massa di coglioni, vi sottoporremo di nuovo il quesito tra un paio d'anni, giusto il tempo di massacrarvi il cervello a mezzo Mediaset e di indurvi, come sempre, a fare quello che voglio. Tra un deretano e una tetta, tra un set di pentole e un quiz. E intanto, già che ci siamo, eliminiamo anche l'impaccio sul legittimo impedimento e sull'acqua pubblica, che così dormiamo tutti più sereni. La performance di ieri è stata sconcertante, rivelatrice come poche altre; dentro, c'era tutto: concezione padronale dello Stato, spregio della democrazia, uso delle masse popolari a proprio uso e consumo. Quando appellarsi alla santità del voto torna a proprio vantaggio ben venga, in caso contrario lasciamo perdere. Parla di energia nucleare come il futuro del mondo, e mi domando con crescente apprensione se questo anziano signore sappia fino in fondo di che parla; e soprattutto fino a che punto abbia il diritto di mettere il cappello su un futuro che, per ovvie ragioni anagrafiche, non gli appartiene. Gli affari sono affari per carità, ma fino ad un certo punto. In quelle parole ottuse, superficiali, spese con poca padronanza lessicale e scarsissima adesione alla realtà, c'è un'irrespirabile aria di miseria. L'assuefazione al peggio è ormai ad uno stato parecchio avanzato, qualsiasi tentativo di trovare una spiegazione logica si imbatte, fatalmente, in un discorso di convenienze personali, di piccoli tornaconti da difendere. E' su questo sottobosco di paura e disprezzo per la cultura che si è venuto a erigere questo Moloch bestiale e fatiscente da cui ora dipendiamo. Nel nucleare come in tutte le altre questioni della vita pubblica: sotto il tacco di una mentalità a malapena in grado di organizzare il palinsesto scadente di una tv via cavo.

pancia &Co.

Prima o poi, pensavo fino a qualche tempo fa, l'opinione pubblica sarà costretta a fare i conti con la miseria culturale (non) prodotta dalla temperie berlusconiana degli ultimi 20 anni. Poi, un po' alla volta, ho inteso che questo non è possibile, perché a quasi nessuno, in buona sostanza, interessa niente del livello culturale del nostro paese. In parole povere: purché se magna. Questa è l'unica, e sconsolata, chiave di lettura che riesco a trovare per spiegarmi fino a che punto la cecità collettiva della nostra società sia stata in grado di accettare e alla fine di metabolizzare questa specie di macchina tritura ragione che da diversi lustri sta mandando all'ammasso i cervelli di intere generazioni. Cresce, in un tripudio di fuffa, l'ammontare cartaceo di attestati universitari e di specializzazioni, mentre declina quell'unica dote mentale che in fondo determina la differenza tra uno schiavo e un uomo libero: la capacità di valutazione. Sarà per questo che un regime così sgangherato, così ripetitivo, così poco interessante è riuscito a imporsi a colpi di televisione spazzatura, aria fritta, chiacchiere, cavilli legali, false apparenze. Perché l'abitudine al pensiero è stata disincentivata, relegata al rango di vecchia scartoffia da soffitta, sostituita da una visione del mondo univoca, votata ad un non meglio chiarito criterio di produttività familistica, dove tutti sono contenti e dove soprattutto una mitologia borghese senza più argini ha assorbito anche le eccedenze intellettive che, in passato, determinarono correnti di pensiero ed eccellenze culturali. E tutto questo a zero spese: senza doversi premurare di dover produrre uno straccio di innovazione o perlomeno l'ombra di pensiero politico, senza avere nemmeno l'impiccio di inventarsi qualcosa che andasse oltre un reaganismo di seconda mano e un po' di avanspettacolo anni Cinquanta. La pancia degli italiani è venuta via davvero a poco. Del cuore, a questo punto, chi se ne frega. Cercasi disperatamente un cervello.

Sì AL REFERENDUM

La faccenda della retromarcia sul nucleare è davvero un capolavoro, un'alzata di genio che brilla di luce propria nello sconfinato grigiore megalomane di questo governo. Erano tutti pro nucleare fino a cinque minuti fa. All'indomani di Fukushima, con piglio tracotante, s'era detto che la politica italiana circa il ripristino delle centrali non sarebbe cambiata di un millimetro. Ci avevano spiegato, ci avevano rassicurato, ci avevano ammansito. Ci avevano detto paternamente che non bisognava lasciarsi guidare dall'onda emotiva. Poi il cambio di rotta, dalla sera alla mattina, in concomitanza sospetta (è dire poco) con l'appuntamento referendario: tre quesiti cruciali, e tutti scomodi per i berluscones: nucleare, privatizzazione dell'acqua, legittimo impedimento. Ovviamente non si tratta di una presa di coscienza, né tantomento di un ragionamento politico. Si tratta di uno spregevole (ma geniale) tentativo di depotenziare la possibile carica detonante del referendum togliendo il quesito principe, quello sul quale questo governo si era speso di più ma verso cui gli italiani si sono sempre rivelati scettici. Tolto il nucleare, gli altri due quesiti, per quanto importantissimi, perdono potere attrattivo, e si sa che non ci vuole molto per sabotare la soglia del quorum. Ora due nodi di estrema gravità e importanza, quali sono l'acqua pubblica e il legittimo impedimento, rischiano di andare in soffitta. E per il nucleare, naturalmente, non s'è risolto un bel niente: un domani, magari molto prossimo, cercheranno di farcelo passare attraverso qualche altro canale legislativo (mettiamola così), senza clamore, nella disattenzione generale, e soprattutto senza l'incomodo del referendum. Insomma, viene il sospetto che le menti migliori di questa classe dirigente siano quelle che lavorano nell'ombra: i ghost writer, i suggeritori, i tessitori di trame che non vanno in televisione e che attuano soluzioni di questo tipo. Mentre noi, dall'altra parte, ci beviamo tutto. Anche l'acqua che tra poco non sarà più nostra.

rileggendo gli Ossi di seppia di Eugenio Montale

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l'arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e la muraglia, e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.

Leggo sempre con una certa emozione le poesie di Montale. Riprendendo in mano gli Ossi di seppia, il capolavoro per eccellenza della poesia italiana del Novecento, non ho potuto fare a meno di sentirmi coinvolto in un atto di devozione che andava ben oltre la mia persona, e che abbracciava qualcosa di più esteso e possente: una mistica, un suono, quel significato ultimo che la letteratura riveste, al di là della sua schematizzazione e di ogni tentativo di definizione strutturale. Gli Ossi di seppia appartengono a ciascuno di noi. Sono pietre lavorate dalla risacca, preziosi semi sul cammino da un uomo d'arte che è stato attraversato dal sentimento artistico. Il Montale degli Ossi resta insuperato, anche da se stesso. In quella raccolta ha espresso il meglio di sé, con la dolorosa consapevolezza di chi ha afferrato il non senso delle cose e che pure, di fronte al Mediterraneo e al suo paesaggio aspro, trova ancora la forza di meravigliarsi e di lasciarsi attrarre. Sono paesaggi impervi quelli degli Ossi. Sono liguri, riarsi, consumati dal salso e dal vento: non sono una patria, ma un luogo mentale e fisico insieme; sono la regione degli abbandoni e dei languori, dove la vita - questo giro di carte truccate - riflette bagliori di infinito sulla superficie del mare "vasto, diverso e insieme fisso". Montale abbraccia idealmente questi luoghi, li abita, vive le arsure e "la buona pioggia di là dallo squallore", ma senza compiacimenti: il poeta è affacciato ai suoi stessi occhi, testimone atterrito, impotente, ora ammirato ora sconvolto. Lo spettacolo di questa mobile fissità richiede tempi e allenamento, capacità di vedere oltre la polvere e di trarne la linfa; la presenza discreta del testimone si risolve nella compenetrazione della natura, e con essa del mondo. Siamo di fronte ad un tentativo, immenso e sfuggente, di ripresa delle tematiche e dello stampo classico: quelle rime a mezzo, imperfette, spigolose, quel lessico aguzzo come i cocci di bottiglia di cui parla, tagliente, scabro, votato alla sensibilità delle cose, rappresenta un unicum, un tentativo rimasto ineguagliato. Non si tratta di ermetismo, non s tratta di naturalismo, meno che mai di simbolismo. Siamo di fronte ad una poesia che non ha bisogno di patenti per dirci la sua grandezza.

chi controlla il "gerarchizzatore"?

I cacciatori difendono l'attività venatoria, i credenti esaltano il valore della religione, gli enologi promuovono la produzione vinicola. Allo stesso modo i giornalisti, durante il Festival del giornalismo, difendono se stessi. Sentire editori e addetti ai lavori che argomentano l'insostituibilità dei giornali non è poi molto diverso dal sorbirsi un paio d'ore di televendita. Non stupisce nemmeno la tesi di fondo: internet sì, ma c'è bisogno di qualcuno che "gerarchizzi le notizie". Chi è questo qualcuno? E con che diritto? potremmo replicare. Il bello della libera informazione della rete è proprio questo: tu utente sei responsabile di quello che leggi; tuo è l'onere di capire quello che è importante e quello che non lo è, o meglio: quello che ti interessa e quello che non ti interessa. Nelle parole della vecchia lobby dell'informazione trapela ancora, come un richiamo della foresta, il richiamo alla pedagogia delle masse, alla missione educativa e formativa del Giornalista nei confronti del cittadino. Non è più così. Sostenerlo, dispiace quasi dirlo, è un deplorevole anacronismo. In epoca di soldi al potere non ci si può più fidare di nessuno, men che meno di un editore, men che meno di un giornalista. La realtà che questi baroni non riescono proprio ad accettare è che il contrappeso del potere informativo si stia spostando da un modello sostanzialmente centralizzato ad un modello plurale, dove la frammentazione, che un tempo era sinonimo di incompletezza, ora diventa segnale di molteplicità, di composizione a proprio piacimento. Non più a piacimento di qualcun altro. Le informazioni che voglio me le vado a cercare, le confronto, scopro chi mente e lo metto alla berlina, scavo oltre la cortina di fumo che i media padronali sistematicamente oppongono alla cosa in sé. La realtà, la vita è fatta di queste sfumature, e ognuno, credo, dovrebbe avere il dovere di farsi un'opinione in modo attivo, non più pendendo dalle labbra di un gruppo editoriale. La rete, non dimentichiamolo mai, ha dato e dà voce a tanti talenti che altrimenti sarebbero ridotti al silenzio. Talenti non garantiti, talenti che non hanno partecipato all'abbuffata sessantottina, talenti che non hanno un microfono da reclamare. La rete ha liberato queste energie e queste idee. Il giornalismo non ha fatto che difendere se stesso e i propri diritti acquisiti.

remare contro

Un altissimo esponente di governo, nella tarda serata di ieri sera, ci informa che chi non è d'accordo con il governo ostacola il dialogo. Il doppio salto logico (e mortale) taglia di netto la componente del confronto - e quindi dialettica - per approdare ad un concetto tanto più nitido quanto più sconcertante: chi non è con noi è contro di noi. Non è la prima volta che questo espediente viene impiegato dalla falange più combattiva dei berluscones. Si tratta di una piccola (anzi, grande) aberrazione logica, di uno spudorato pervertimento delle regole democratiche secondo cui, udite udite, la battaglia parlamentare è un inciampo al lavoro del manovratore, un fastidio alla prosecuzione della somma opera del capo. Con un frasetta del genere - detta tra l'altro con l'ormai insopportabile arroganza di chi si crede il padrone - la democrazia viene in pratica ridimensionata a procedura da sveltire, impiccio per legulei. Non solo le regole sono applicate a corrente alternata, non solo un parlamento intero è alle dipendenze di uno solo, non solo la deriva populistica è ormai fuori controllo, ma bisogna pure stare attenti a non dire niente, pena l'accusa di remare contro. Contro a che cosa, poi, è ancora da chiarire. Per il momento bisogna accontentarsi di argomenti logori come "la maggioranza degli italiani ci ha votato", che oltre ad essere un poco penosi, aprono inquietanti squarci su tematiche quali la dittatura della maggioranza e il fatto - di per sé elementare ma mai dire mai con questa classe dirigente - che l'aver vinto le elezioni tre anni fa non consenta di fare il comodo proprio alla faccia di ogni regola e di ogni decoro. A fronte di un quadro come questo, anche la chiosa del ministro appare tutto sommato coerente: un martirio del buon senso, ma in perfetta linea con quanto fatto finora.

La certosa di Parma, di Stendhal

Nuovo scritto per Reader's Bench:

Europa mon amour

Osservando anche distrattamente le vicende della vicina Svizzera, verrebbe da dire, con una battuta facilotta, che chi di Lega ferisce di Lega perisce. Dopo l'exploit della Lega Ticinese, infatti, sembra si preparino tempi duri per i frontalieri e in generale per i rapporti con il Cantone svizzero. Il programma politico di quest'altra Lega - ancora più a nord della nostra - si articola in una serie di proposte che potrebbero essere sbrigativamente assimilate a certe iniziative a metà tra il folklore e un malinteso senso dell'identità che conosciamo bene. Che effetto fa sentirsi meridionali di qualcun altro? O extracomunitari di qualcun altro? O ospiti temporanei di qualcun altro? Non è tanto un fatto di confronto o un tentativo di derisione, ma la necessità di un semplice chiarimento circa i termini del problema: chi è che cosa? Chi è titolare della patente di celticità? Il problema identitario si presenta così frammentato e diseguale che qualsiasi tentativo di rappresentazione finirebbe per essere incompleto. Il fenomeno leghista, o come mi piace chiamarlo della piccola patria, cambia radicalmente di senso nel momento in cui la prospettiva viene ribaltata, e il grande accusatore si trova accusato, e il padrone di casa si trova ad essere l'ospite con le pezze. Ma l'aria che tira, pare uguale un po' ovunque. Anche in Europa - ossia l'Europa che conta e comanda - non sembra ci sia molta voglia di essere solidali, specie con noi italiani. Ancora una volta, come sempre, figli della serva, inquilini tollerati, comodo porto di mare in mezzo al Mediterraneo. All'occorrenza agnello sacrificale di politiche spensierate in salsa francese, il paese che forse, dico forse, dovrebbe arrossire più di tutti, e che invece trova ancora la forza di andare a insegnare come si fa. Che cosa, ce lo dovranno spiegare. Intanto noi ridiamo, le barzellette non mancano, e speriamo che almeno Austria e Slovenia aprano il cuore e le porte, perché se prima o poi toccasse a noi sloggiare i ponti levatoi di Francia e Svizzera sarebbero già ben saldati. Non è che confiniamo poi con molti paesi.

dialetto d'Europa

La reintroduzione dello studio dei dialetti nelle scuole, come di recente è accaduto in Sicilia, mi pare proprio segni una piccola grande sconfitta inflitta dalla piccola patria alla società civile nel suo complesso. La regione in questione è la Sicilia, ma potrebbe trattarsi benissimo di Veneto, Lombardia, Umbria, Puglia e ciascuno metta chi preferisce. In un quadro sociale già di per sé frammentato, ecco un altro tentativo per rendere il panorama italiano ancora più lacunoso, costellato di atolli, ciascuno con la sua storia da difendere a scapito delle altre, ciascuno portatore di una verità che, nella logica precaria del campanilismo, sotto sotto tende ad accreditarsi come più vera delle altre. Anche questa storia del salvare la memoria fatico a capirla. Sarà che sono un relativista della malora, ma non riesco a smetterla di interrogarmi su cosa sia, in nome del cielo e una buona volta, questa memoria: memoria di chi? Memoria di che cosa? Del passato che fu? Ma allora si aprono voragini incolmabili: perché non studiare anche l'aramaico o non estendere lo studio del greco antico a tutte le scuole del regno? Non sono forse parte della nostra memoria? Il fatto poi che questo studio venga imposto con regio decreto, la dice lunga sulla sua necessità effettiva: come tutte le imposizioni dall'alto, è una manovra destinata a soddisfare gli appetiti momentanei di pochi, e non a completare la formazione dell'individuo sul lungo periodo. Abbiamo una magnifica lingua unitaria, potremmo cominciare a difendere questa, anche in sede europea, dove siamo puntualmente umiliati dai primi della classe, invece di prenderci a spingardate con la nostra solita solfa di basso folklore. Apro un'ultima parentesi, ma questa è strettamente personale, opinabile, e un po' rischiosa da asserire: la mia sensazione è che la letteratura dialettale non sia all'altezza di quella nazionale. Ci sono delle eccezioni naturalmente - sempre le stesse tra l'altro - ma per favore, proviamo a guardare con un minimo di senso della realtà allo stato delle cose: è l'italiano l'unica lingua che nel guazzabuglio generale degli idiomi sia riuscito a dare vita ad un'eccellenza letteraria riconosciuta nel mondo. Rincaro la dose: oggi come oggi qualsiasi tentativo di imposizione del dialetto che esuli dal gergo familiare mi sembra una macchietta, mi suona come un atteggiamento canzonatorio che non fa molto onore. Un po' come il solito italiano all'estero che non spiccica una parola d'inglese e tenta di farsi capire a gesti.

l'articolo per Reader's Bench

Da quest'oggi inizio una collaborazione con il sito di Reader's Bench, uno spazio in cui gli appassionati di libri possono incontrarsi. Da questo momento una parte dei post che scrivo verrà dirottata in questa nuova avventura. Di volta in volta segnalerò il link per leggere gli articoli che scriverò.

Madoff ai Parioli

La vicenda rubricata sotto il nome inquietante di "Madoff dei Parioli" ha l'effetto di costringere l'osservatore a schiacciarsi su una prospettiva decisamente bassa, e un po' miserabile. I nomi dei vip coinvolti nella vicenda (da vittime, naturalmente) rendono il piatto un po' più speziato, ma non cambiano la sostanza della questione. Questi artisti, calciatori, imprenditori e via dicendo, hanno investito decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di euro in un meccanismo rivelatosi poi truffaldino che prometteva profitti da capogiro a fronte di operazioni finanziarie non molto ben definite. Insomma, il solito schema di Ponzi. Ora, da ultima ruota del carro, mi chiedo: ma se uno ha già milioni di euro da parte, perché dovrebbe arrischiarsi in arzigogoli finanziari che sanno di marcio lontano un miglio? Il sospetto che l'avidità nuda e cruda c'entri, e parecchio, è alquanto consistente. Non si tratta di andare a fare i conti in tasca al prossimo: ognuno faccia dei suoi soldi ciò che vuole. Ma non avvertire una certa distonia tra il cantautore virato eskimo, per esempio, e una milionata abbondante data in pasto da quest'ultimo ad un uomo dei sogni che prometteva l'Eldorado, mi pare abbastanza difficile. Lo stesso si potrebbe dire per il fustigatore dei costumi fustigato o per il politico integerrimo. Non so che cosa mi infastidisca di più di questa faccenda: non so se sia il misterioso doppio che affiora alle spalle di chi si vendeva per duro e puro; se il milione (milione, sei zeri) che sporge dalle tasche dell'eskimo; se sia la noncuranza con cui una persona che si suppone sia preparata dia tanto denaro in opere dichiaratamente speculative. Non lo so, ma tutto questo mi deprime abbastanza. Nella mia ingenuità, ho sempre pensato che gli investimenti benedetti fossero quelli che producono qualcosa, che dessero il giusto in un tempo medio lungo. E se devo essere del tutto onesto, la paciosa difesa d'ufficio che Serra offre al suo amico Riondino (basta ammettere di essere dei grulli per farci fare una risata e chi s'è visto s'è visto) non mi convince più di tanto. Anzi, più che sorridere mi fa arrossire.

traduzioni

Mi sono sempre chiesto che cosa possa spingere uno studioso - o uno scrittore, o un letterato in genere - ad affrontare un'opera metodica e lunga di traduzione. Mi è capitato di pensarci rileggendo qualche brano della corrispondenza di Giovanni Raboni, artefice unico di una monumentale traduzione della Recherche di Proust, circa tremila pagine di lavoro, su cui si srotola una messe narrativa di rara densità. Non esistono tanti autori che si siano addentrati così tanto in un universo romanzesco tanto esteso: la Recherche presenta numerose traduzioni in tutte le lingue del mondo, ovviamente, ma che mi risulti sono pochi i casi in cui una sola mano si sia fatta carico di tutto il lavoro. In Italia, per esempio, l'unica versione per così dire 'unica' è appunto quella del poeta e saggista milanese. Forse non è un caso che una mole di lavoro del genere - una mole spaventosa sia dal punto di vista quantitativo sia sotto il profilo della consistenza culturale della Recherche con tutte le conseguenze connesse - sia stata lentamente metabolizzata da un poeta. Uno scrittore in senso puro, in senso prosastico, forse avrebbe incontrato maggiori difficoltà nell'enucleare il codice madre dell'opera proustiana; forse ci avrebbe messo troppo del suo, cedendo alla tentazione di interpolare la propria esperienza con quella dell'autore, in un processo che avrebbe portato a confondere pericolosamente la traduzione con la riscrittura. Un poeta tende per sua stessa natura alla sintesi, cerca il denominatore comune degli elementi, li riconcilia con la loro natura primitiva, depurando il concetto dagli elementi esterni, esornativi. Un altro esempio che mi viene in mente sui due piedi è quello di Giorgio Caproni, che si misurò con Morte a credito di Cèline, altro romanzo a suo modo smisurato. Forse un poeta ha modo di conoscere ad un livello più privato e quasi viscerale il valore, il suono della parola, basando l'effetto ritmico in un'altra lingua su termini come assonanza e musicalità, tutti aspetti che un semplice lavoro traspositivo non sarebbe in grado di rendere.

va di moda

Se mi domandassero in quale campo si concentri la quantità più rilevante di sopravvalutazione, risponderei nella moda, senza grandi esitazioni. Non sono mai riuscito a trovarci niente di interessante, di più: non sono mai riuscito a individuare, in quelle tristissime passerelle, il vero movente. Oltre a quello economico, si intende. Ma per quanto viviamo in una società che ha fatto della monetizzazione il suo parametro principale, il solo rendiconto economico non credo basti a spiegare non tanto gli introiti miliardari degli stilisti (sarebbe quasi una tautologia) ma piuttosto il loro crescente ruolo sociale, accreditati di una sapienza stilistica che non si capisce bene da dove provenga. Moda e stile coincidono? E' solo una delle tante domande. La più scontata delle risposte sarebbe: no, non coincidono. E anche il solo pensare che un vestito travalichi la propria realtà di stoffa e artigianato per diventare archetipo di un'epoca la vedo solo come una delle tante deformazioni novecentesche, secolo di media e di masse ammaestrate con qualche moneta in più a disposizione. Il progressivo spostamento della nozione artistica - o sarebbe meglio dire del concetto d'arte - da ciò che è propriamente artistico a ciò che bene che vada incarna la sua parodia, dovrebbe dirla lunga sulla fase da basso impero che stiamo attraversando. O che ci stanno facendo attraversare, il che non è propriamente la stessa cosa. Mi spiego meglio: noi oggi conosciamo l'abbigliamento rinascimentale, conosciamo anche quello medievale, romano antico, greco, fenicio e via dicendo, solo che non usiamo quel parametro per definire un'intera epoca storica, come invece oggi la facile equazione moda uguale società tende a fare. Gli esempi di questo tentativo abnorme di banalizzazione lo vediamo tutti i giorni, su giornali e telegiornali, dove il tempo dedicato a sfilate e cose simili è semplicemente spropositato, incongruo, fuori controllo. Si dirà che la ragione è industriale, dunque ancora una volta economica: questo è quello che esporta l'Italia. Senza volerlo siamo incappati in una risposta tanto sconcertante quanto inoppugnabile.