l'ora di religione

L'ennesima, ridicola uscita del nostro anziano premier a proposito di scuola pubblica e unioni gay non è degna di un paese moderno ed europeo. E' la solita solfa in odore di ignoranza, classismo, brutalità verbale. E' la solita volgarità gratuita che denuncia sbaraglio intellettuale, arretratezza, incapacità di trovare nuove formule per nuove problematiche. Di più: è il solito trucco con cui questo triste e strambo personaggio prova ancora una volta a dirottare l'attenzione dei cittadini. E' anche un cenno d'intesa a tutto quel sottobosco cattolico che costituisce la vera, autentica armatura di questo squallido governo: alte eminenze, burocrati della fede, fondamentalisti cattolici, che nonostante il palese disprezzo mostrato da questo anziano signore per qualsiasi forma di morale (anche cattolica) continuano a sostenerlo. Per usarlo. Per continuare a galopparlo come un cavallo di Troia, certi ottenere qualcosa in cambio. Vuoi la conferma degli sgravi fiscali, vuoi la promulgazione di leggi particolarmente gradite, vuoi i finanziamenti pubblici a pioggia a favore delle scuole private (quasi tutte cattoliche). Ti credo che lo sostengono. E chi se ne importa se proprio lui ha l'ardire di parlare ancora di famiglia e di valori. Almeno non chiamate questo personaggio uno statista per favore, perché qui, una volta di più, siamo in presenza di uno dei comportamenti più bassi, retrivi, imbarazzanti a cui questo paese abbia mai dovuto assistere. Il classismo che emerge dalle parole di quest'uomo, confesso, mi fa paura: non credo ci sia niente, in Europa, di altrettanto conservatore, capitalista, reazionario, spaventosamente conformista, impermeabile al ragionamento, ostile a qualsiasi forma di contestazione. Io so quale è l'obiettivo ultimo di questa pasticciata e aberrante ideologia che risponde al nome di berlusconismo: il pensiero unico, l'idea unica, con scuole che insegnino un'unica visione delle cose, con insegnanti indottrinati e allievi ammaestrati. Un ideale dittatoriale, per farla breve. E al servizio di uno dei "pensieri" politici più scadenti e sgangherati che mente umana abbia mai concepito.

le scelte sbagliate


E' importante, a mio avviso, che i paesi concentrino l'attenzione sull'equità, facendo in modo che i frutti della crescita siano ampiamente condivisi. E' un dovere morale battersi per l'equità, ma questa è necessaria perché la crescita sia sostenibile. La risorsa più importante di un paese è la sua gente e se una gran parte della popolazione non sfrutta tutte le proprie potenzialità, [...] il paese non riuscirà a sviluppare tutto il proprio potenziale.

Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi.

Le parole qui sopra riportate sono importanti per inquadrare il problema che stiamo vivendo in queste ore, e che con tutta probabilità L'Europa dovrà affrontare nei prossimi mesi (e nei prossimi anni). Le ondate migratorie dall'Africa non si arresteranno, anzi, aumenteranno. Non ci vuole un esperto di economia per intravedere le cause di questo spostamento enorme di persone che fuggono da situazioni di vita inaccettabili alla ricerca di un miraggio di benessere. Stigliz non è un pericoloso bolscevico né tantomeno un black block, ma un Premio Nobel che si è posto alcune domande in merito ai risultati fin qui ottenuti dalla globalizzazione, fornendo tesi e correttivi che inquadrano il fenomeno al di là di ogni pregiudizio ideologico o strumentale. Nel semplice concetto secondo cui "la risorsa più importante di un paese è la sua gente" c'è già una proposta politica che va ben oltre i palliativi impiegati dai governi per fermare i flussi migratori, ma non per risolvere il problema - drammatico - che sta a monte: malnutrizione, scarsa scolarizzazione, mancanza di infrastrutture, sfruttamento indiscriminato del territorio e via di questo passo. In altre parole, pagare un feroce dittatore perché si regoli come meglio crede con i migranti non è una soluzione politica, ma un semplice (e sconcio) tappo che prima o poi sarebbe saltato comunque. Non sono state messe le persone al centro della politica europea e mondiale, ma sono stati messi gli interessi immediati. Si è parlato di realpolitik. Ma può definirsi pragmatica una politica che si occupi solo dell'immediato presente ignorando mutamenti sociali ed economici, in moto da decenni, che stanno per presentare il conto? E' sotto gli occhi di tutti come, di fronte ai mutamenti della Storia, non c'è tacco dittatoriale che tenga.

il nord del sud

Ormai è sotto gli occhi di tutti quanto sta accadendo in Nord Africa in queste ore: focolai di rivolta che potrebbero diventare rivoluzioni vere e proprie che dalla sera alla mattina stanno mettendo alla corda regimi pluridecennali. E' la gente che si riprende la propria terra potremmo dire, ma aspettiamo di vedere gli sviluppi prima di formulare qualsiasi ipotesi affrettata. Guardiamo i dati di fatto, che per quanto mi riguarda sono due, macroscopici: il nostro governo, nella illustre persona del premier, in quanto a politica internazionale (limitiamoci a quella) non ne ha azzeccata una. Farsi amici dei dittatori, regalando ai despoti un po' di ribalta in virtù dell'amicizia con uno stato europeo, è un gioco pericoloso. Sporco. Che non paga. Infatti la nostra diplomazia, in queste ore, annaspa nell'imbarazzo. Facile intuire a quale livello sia scesa la nostra considerazione a livello internazionale (nei paesi liberi, ovvio). Punto secondo: nessuno aveva previsto niente. Soloni, espertoni di politica estera, strateghi da rivista: fino a un mese fa sapevamo a malapena chi fosse Mubarak (o meglio sapevamo solo chi era sua nipote), ospitavamo con tutti gli onori Gheddafi a Roma, la Tunisia sapevamo sì e non dove fosse. Stampa latitante, informazione inesistente. E il mondo là fuori, un mondo che sta cambiando, perché sta cambiando la gente. La Storia, forse, sta prendendo una piega inaspettata, che questa politica piccola e con la coscienza sporca non è in grado di affrontare: basta vedere l'età media di chi ci governa, lo spessore umano e intellettuale dimostrato nel corso degli anni per capire che questi signori, ancora una volta, non hanno la volontà né gli strumenti per capire quello che sta accadendo. E' in corso l''89 del Mediterraneo, le pagine sono bianche, in attesa che una politica migliore di quella che l'ha preceduta sappia scrivere il proprio destino.

Pastorale Americana, di Philip Roth

Nel microcosmo di Newark, sprofondo americano, si consuma la parabola esistenziale di Seymour Levov, detto lo Svedese per via dell'aspetto imponente e dei capelli biondissimi, campione a stelle e strisce di origine ebraica ma più wasp dei wasp per via delle sue spiccate attitudini made in America. Campione negli sport, marine, imprenditore di successo. Per soprammercato si sposa pure Miss New Jersey 1949, la bellissima Dawn. Eppure la mano del fato è in agguato. Prenderà le forme inaspettate di una figlia balbuziente e inquietante e del conflitto in Vietnam. Philip Roth con Pastorale americana definisce i suoi canoni umani, stilistici e politici e scrive il libro che lo consegnerà alla memoria letteraria. In questo romanzo di digressioni e battute a vuoto c'è in realtà una coerenza tesa, disperata, che prende corpo a poco a poco, smontando pezzo per pezzo le illusioni di un mito, quello americano appunto, e delineando al contempo una riflessione non banale sul caso, la predestinazione, la storia. Il gagliardo americano ottimista si troverà a dover far fronte a tutto ciò per cui né lo sport né uno stile di vita improntato alla competizione lo possono aver preparato. Incredibile come un romanzo così intriso di tematiche comuni - il solito Vietnam, il solito americano middle class in crisi, il solito ambiente liceale universitario, le solite paturnie familiari intorno al desco - riesca in realtà a sollevarsi da quella che rischiava di essere una storia banale per dire qualcosa che va oltre alle righe, per consegnarsi, in tutta la sua interezza, ai capricci della vita. Che non è provvidente, che non è generosa, che è solo quello che è, in tutta la sua insensatezza e in tutti i suoi compromessi. Merry, la figlia, è un personaggio un po' schematico, e, pur assumendo in toto la versione tragico fatalista dell'autore, è impossibile non storcere il naso di fronte agli accessi del suo carattere, agli improvvisi colpi di testa e al generale senso di eccesso gratuito che trapela da ogni suo gesto. Il lezzo di scuola di scrittura creativa si sente, ma non è ancora il fetore insopportabile che deflagrerà senza alcun ritegno in La macchia umana. Da leggere, comunque, e per una ragione molto semplice: si riesce a leggere senza la spiacevole sensazione di girare a vuoto.

bunker

Tentare di liquidare la milionata abbondante di donne (e non solo) che ha gremito le piazze italiane come una scampagnata di "poche radical chic" è una stupidaggine, diciamocelo pure senza troppi giri di parole. Dire che un milione e mezzo circa di persone si sono fatte abbindolare e strumentalizzare da una parte politica è come ammettere, implicitamente, di aver perso. Non solo il polso del paese, ma anche la brocca. La ragione è semplice: nel ripetere queste idiozie a buon mercato si rivela tutta la debolezza del proprio impianto politico e culturale: era inevitabile che una classe dirigete incapace di produrre idee e soluzioni, ma buona solo di ripetere slogan e promuovere false riforme, si trovasse prima o poi nella disperata e umiliante situazione di non saper più che pesci pigliare, di non saper più che cosa dire a fronte dell'arroganza dimostrata solo fino a qualche mese fa. Quella che fino a un po' di tempo fa sembrava sicurezza, ora si rivela una miserabile montatura: è la storia un po' di tutti i grandi insolenti della storia quella di finire prima o poi imburrati nella loro stessa protervia. Che non era in realtà sicurezza, ma una finta, fintissima patina guascona, utile a sostenere l'incredibile progetto antipolitico e antidemocratico che sotto le mentite spoglie di un liberalismo d'accatto stava (e sta) minando questo paese nelle sue fragili fondamenta. Stanno già cambiando bandiera, comunque. A parte gli irriducibili che difendendo il padrone difendono se stessi, chi può sta già arretrando il baricentro, sta cercando di chiamarsi fuori, apparendo il meno possibile nonostante fino a qualche mese fa facesse a pugni per rilasciare dichiarazioni. E' il crudele gioco della storia, ma con la esse minuscola: quella che va in liquidazione per una storia di puttane e non, come pure avrebbe dovuto, per il fallimento politico e umano di vent'anni di ciarpame. Con la grande Storia, questa piccola cronaca gossippara ha in comune solo la sensazione di essere nel bunker della cancelleria, quando ormai si facevano generali anche i bambini di tredici anni.

fenomenale

E così Ronaldo non gioca più. Ci lascia con una caterva di goal alle spalle, alcune immagini lancinanti (quelle dei numerosi e sciagurati infortuni) e una dose molto alta di umanità, quel pizzico di genio bambino e di spensierato talento che personalmente mi mancherà tanto. Ormai, Ronaldo non era più Il Fenomeno già da diverso tempo, ma un'ingombrante controfigura dal fisico minato da problemi di ogni sorta, non ultimi gli scompensi ormonali che ne hanno decretato l'aspetto ipertrofico delle ultime stagioni. Ma sentire dalla sua voce che non calcherà più un terreno di gioco, diciamocelo, fa un certo effetto. Tornano alla mente il passo veloce e potente delle belle stagioni, la forza elegante con cui superava ogni avversario, quel mix di rapidità rapace, fantasia, precisione chirurgica con cui tagliava in due le difese, lasciava a bocca aperta i difensori, estasiava tifosi amici e avversari. Ormai Luis Nazario De Lima era leggenda, già molto prima dell'ultima, difficile conferenza stampa. Era entrato nell'immaginario collettivo per essere stato al tempo stesso un prototipo della modernità calcistica e un unicum, un vezzo inimitabile del fato, che si è divertito a incanalare tanto talento e tanta sfortuna in un atleta solo. Era un dio Ronaldo. Correva, dribblava, tirava, faceva assist, era uomo squadra ma anche spalla, volpe e destriero. Nessuno, negli ultimi vent'anni, ha avuto tanta tecnica unita a tanta velocità. Ha raggiunto le 62 reti con la nazionale brasiliana, a un pugno di goal di distanza dal mito Pelé, che sicuramente, senza il martirio fisico che ha dovuto patire negli anni, avrebbe superato. Ma non è tempo di cifre, per quelle ci sono gli schedari e tutti gli almanacchisti del calcio. Per tutti gli altri resta l'epoca che questo bolide umano ha segnato, e dove i successi, comunque, sono stati dilaganti, a dispetto dello stillicidio di dolori e acciacchi. Il dramma del calciatore è quello di essere un artista senza tela e senza pennello: come riusciremo a raccontare quelle traiettorie, quei gesti atletici, quella maestà capace di far trasfigurare un simpatico ragazzone brasiliano in un semidio? Mi mancherai Ronnie, e grazie di tutto.

l'antipatico aveva ragione


Partiamo da un dato empirico. A molti Nanni Moretti è antipatico. Perché è ritenuto narciso, perché è piuttosto autoreferenziale, perché i suoi film sono in genere a tesi, pesantemente sarcastici, qualche volta frammentari. In qualche caso le critiche sono meritate, in altri no, come normalmente avviene nella carriera di un regista, ma qui siamo all'ovvietà. Un dato di fatto, invece, è che nel suo film Il caimano, nella ormai famosa scena finale, ha preconizzato quanto sarebbe accaduto di lì a qualche anno, ossia in questi giorni e in quelli che verranno: al di là della simpatia o dell'antipatia dell'autore, il saper leggere in anticipo una realtà è sempre un merito, specie se quel vaticinio a suo tempo fu accolto come un'esagerazione, un'iperbole, il solito colpo di teatro di un regista ideologizzato. Niente di più falso: nelle parole del Moretti/premier si legge in filigrana quella che è stata la storia italiana degli ultimi vent'anni; in un pezzo di qualche minuto sono condensati gli argomenti e i modi di fare di un'intera classe politica, con gli stessi tic, le stesse movenze, persino gli stessi sconclusionati alibi che vengono ripetuti dai megafoni di regime da molto tempo. Ma veramente da molto tempo. Per questa ragione mi viene quasi da dire che Moretti non ha, in fondo, inventato nulla: ha "solo" recepito il messaggio, lo ha ponderato e alla fine lo ha sintetizzato nella sua forma essenziale, quella cioè di un vuoto oggettivo, di uno slogan tenuto insieme da suoni senza senso. Moretti non ha inventato nulla: era tutto lì, a disposizione. Per questo quella che ormai viene chiamata profezia, secondo me rappresenta più che altro una diretta osservazione della cronaca, e il fatto che un premier abbia ripetuto, a cinque anni di distanza, le stesse parole ipotizzate da un regista in un film, testimonia non solo l'acutezza del cineasta, ma anche la scarsa fantasia di questo potere, talmente ingarbugliato nella propria narrazione da non saper più trovare altre parole se non quelle trite e ritrite dei propri spot.

capito perché la Costituzione serve?

Se togliamo quel tanto di patina retorica (onnipresente in Italia) che avvolge la nostra Costituzione repubblicana, ci accorgiamo che questa carta serve davvero. Che non è stata scritta sulla scorta di una sbornia emotiva o sull'onda di chissà quali fardelli ideologici, ma che al contrario è quanto di più bilanciato, equilibrato, sano sia stato prodotto a livello giuridico in questo paese dalla sua Unità ad oggi. Il concetto base di questo documento è semplice, e fondamentale al tempo stesso: evitare l'accentramento del potere nelle mani di uno solo e garantire la libertà di tutti, anche delle minoranze. I costituenti conoscevano bene l'indole italiana, che poi è comune a quella di altri popoli: conquistare la libertà è un processo lungo e doloroso, ma ancora di più lo è conservarla, gestirla, fare in modo che nessun Cesare possa metterci sopra il cappello; ed è a questo che mira la Costituzione: fare in modo che la democrazia possa sopravvivere al lassismo di un intero stato, di un'intera nazione, che, in particolari momenti di sbando e menefreghismo, è disposta a concedere di tutto di più ad un padrone purché la sollevi dalla bella e tremenda responsabilità di farsi carico del proprio destino. Ecco perché modificarla è pericoloso. Si può cominciare da un articolo apparentemente secondario, innocuo, si può dare credito alle moine bugiarde di un padrone del vapore che da anni non chiede altro che modificarla questa carta. Si può certo. E come si finisce? Violare la costituzione, specie nella sua prima parte, significa andare a minare l'equilibrio fragilissimo che tiene insieme questo paese, consentendo, una volta aperta la breccia, di fare qualunque cosa. Qualunque cosa. E poi, parliamoci chiaro, guardiamo in faccia a chi ci dice che la Costituzione va cambiata: ci fidiamo davvero? Possiamo in buona coscienza dare credito a queste facce e a questi trascorsi umani e politici quando dicono che lo fanno per il nostro bene?

fuori dal mondo

Persi come siamo nella narrazione scadente di una politica di scarso valore e nessuna idea, stiamo a poco a poco perdendo di vista anche quello che è il mondo al di fuori dei nostri confini nazionali. Quel magma incandescente che si evolve, che muta, che distrugge gli argini per costruirne di nuovi ci è ormai estraneo, tutt'al più ci suona come una bizzarria stonata al nostro orecchio di benpensanti provinciali. In una società sempre più complessa, che sfrutta le nuove tecnologie per tentare di semplificare la vita e creare nuove opportunità di lavoro e ricerca, il grosso della società italiana arranca di pari passo alla classe che la dirige (male). Non solo uomini e donne fieramente privi di cultura, orgogliosi di non aver mai letto un libro in vita loro, ma uomini e donne che ignorano le possibilità tecnologiche di oggi e domani, che vivono ancora in un mondo analogico, credendo di potersi nascondere ancora per molto dietro il classico dito. Siamo sotto il tacco di una classe dirigente che ci ha spacciato (e ancora ci spaccia) il digitale terrestre come una tecnologia d'avanguardia, e basterebbe questo per dire il livello a cui siamo. Non solo disprezzo per la cultura, ma totale assenza di nozioni circa il presente: Skype? Viber? Social network? Informazioni globalizzate? Ragazzate, per questi signori, parole astruse, concetti senza futuro. Emblema di tutto ciò i tristi messaggi a mezzo youtube del ministro della Pubblica Istruzione, specie di video alla Stranamore dalla regia squallida. Meglio il palo della lap dance, meglio il bunga bunga (mi fa schifo anche scriverla 'sta parola immonda). Il resto del globo vive i fermenti di una stagione potenzialmente innovativa, noi dobbiamo subire il tappo di questa classe dirigente inadeguata, sorpassata, politicamente e umanamente senza futuro. Basta vedere il comportamento insulso della nostra politica estera nei confronti della situazione egiziana; e dire che una volta l'Italia, perlomeno, esercitava un residuo ruolo internazionale come cerniera culturale tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. La sensazione è di avere a che fare con una zavorra, una palla al piede che ci sta facendo perdere il treno. E questa è la vera responsabilità che nessun politico si assume.

al bar con Benni

Bar Sport è un libro piccolo piccolo, pubblicato sul finire dei Settanta, una delle prime prove di Stefano Benni. Si presenta come libro comico: situazioni paradossali, apologhi sgangherati, personaggi ora buffi ora grotteschi che girano attorno al microcosmo di un bar di provincia, dove le stagioni passano e le tipologie umane restano più o meno quelle. C'è il vecchio, c'è il ragazzo di bottega, c'è il ragioniere, c'è la cassiera. Su tutto regna un'aria di sconforto misto a rassegnazione, ragion per cui la parabola comica finisce per diventare cupa, a tratti sgradevole, ritratto di una società italiana ai margini, priva di prospettiva, fatalmente inscritta nel circolo vizioso delle abitudini. Bar sport non è una lettura da sottovalutare. Sotto la patina della risata ora facile ora più arguta, si cela un sottoinsieme malinconico e debordante, dove le frustrazioni si mascherano da goliardate, e dove il generale senso di impotenza e inutilità alla fine domina su tutto. E vince. Tra le pareti del bar, tra un biliardo e un caffè, si consuma la vita di generazioni intere, comicamente al palo, debolmente affidate al flusso delle cose. Come spesso accade negli scritti del primo Benni, il mezzo comico è un espediente per parlarci della nostra parte debole. La leggerezza è poco più di un gioco letterario, dietro cui muoiono speranze e in cui, per citare Tenco, i sogni sono solo sogni e l'avvenire è ormai quasi passato. Se pensiamo a che cosa sono oggi i libri così detti comici, con Benni riscopriamo una dimensione della risata più duratura, capace di attraversare i decenni, le mode, le tendenze per ripresentarsi oggi, a più di trent'anni di distanza, con ancora qualcosa da dire. Non ci sono riusciti libri e saggi dalle altissime e dottissime pretese.

quando si dice paese

E' curioso come nell'occhio del ciclone, in queste ultime settimane ma potrei dire in questi ultimi anni, sia finita la povera città di Arcore, paesotto brianzolo tranquillo e ordinato, da cui passavo adolescente durante delle stupende gite in bicicletta, ma anche meta, negli anni della guerra, di sfollati costretti ad abbandonare la grande città. Fa uno strano effetto sentire il nome fiero e distinto di questo paese associato ad orge e stravizi, festini e situazioni ambigue. Strano, perché la Brianza, quella in cui sono cresciuto e da cui viene buona parte della mia famiglia, è l'esatto opposto di questa versione pecoreccia e volgare: è un territorio con i suoi pregi e difetti, come tutti, ma con un fondo, un carattere per sua natura sobrio, equilibrato, privo di fronzoli e votato alla sostanza. Nonostante il cemento e il generale degrado ambientale a cui è andata incontro un po' tutta Italia, la Brianza ha saputo mantenere in molti suoi aspetti questo tono essenziale, volitivo, a tratti austero, ma capace di bruschi ritorni ad un'umanità struggente e autentica. Ed è per questo che un senso di malinconia mi prende alla gola tutte le volte che, con il fare languido di un poeta alla deriva, magari passo a piedi attraverso luoghi e angoli che ancora racchiudono questa natura originaria, lontana anni luce da donne in svendita, giri di soldi, abiezione e quant'altro. Nelle mie orecchie echeggiano ancora i racconti dei miei nonni, di certi personaggi emblematici, di certe reminiscenze antiche e sane come un soffio di lievito madre; ed è con difficoltà che riesco a guardare alla Brianza di oggi senza pensare che i barbari non sono più quelli con le corna in testa e le asce in mano, ma sono di una specie molto più infima e codarda, che ha fatto dell'ipocrisia e del denaro il proprio unico credo, trasformando quella che era una storia di coraggio e dignità in un lupanare senza scampo. Il contrario di un miracolo, non c'è dubbio.