satyricon

Il nuovo capitolo di questo lungo addio, ha il volto e le fattezze di una ninfetta minorenne e allucinante che dimostra almeno dieci anni più della sua effettiva età. E' l'ennesima storia squallida, ambigua, fatta di detti e contraddetti. Una storia di feste equivoche, vecchi procacciatori, presunti abusi di potere. E' la cronaca di un tracollo, quello a cui stiamo assistendo ormai da oltre un anno: un castello di carte che collassa e lascia intuire dietro le defunte vestigia nient'altro che un pugno di polvere. Il fatto in sé, la cronaca spicciola di queste ore, non sorprende ormai più: eravamo tutti più che in grado di immaginare qualcosa del genere, in un certo senso molti di noi se l'aspettavano. Infatti, tra le reazioni di queste ore, la meno gettonata è stata proprio lo stupore. Non sorprende più neanche l'arroganza di questo potere insensato, che sbraita a oltranza, che non vuole saperne di dimettersi: è un film già visto cento volte. E anche la solita domanda, quella che mi pongo con crescente tensione ad ogni puntuale scadenza, è anch'essa sempre uguale: che deve accadere ancora? Ormai siamo al gioco di ruolo, e non mi aspetto più una risposta di buonsenso, perché tanto so già che la realtà si incaricherebbe di deludermi a stretto giro. E allora che rimane? Oltre ai possibili risvolti giudiziari, già visti già sentiti anche quelli, resta un vago senso di schifo. Di vergogna impotente di fronte a questa macilenta decomposizione: una disgregazione annunciata che si svolge sotto gli occhi di tutti, senza alcun pudore. Anche il probabile disgusto internazionale che seguirà a questa ennesima pagliacciata non farà più notizia. E hai voglia a dire che la faccenda non ha rilevanza politica: e se per caso scoprissimo un giorno che tra le cause degli scarsi investimenti esteri nel nostro paese ci fossero anche queste continue figure da Pulcinella? Fossero almeno stati coinvolti gli alti ideali, le grandi battaglie, le grandi follie da cui la Storia è stata più volte insanguinata nel corso dei secoli. No, niente di tutto questo: sono le solite storie di putredine e malaffare, di sconcezza e di pelo. Almeno moriremo al caldo dirà qualcuno.

teleutenze

Interessante articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica (link) in cui si analizza il panorama dell'informazione in Italia. Ne esce il ritratto di un paese che poco alla volta sta acquisendo una certa consapevolezza, è vero, ma ciò che emerge con prepotenza a mio avviso è come questo tentativo risulti parecchio faticoso, come se ci fosse un tappo che impedisce il salto di qualità. Il tappo ha un nome: conflitto di interessi. Il conformismo delle idee parte da un dato di fatto inoppugnabile: troppa televisione si plasma sulle idee e sugli interessi di un uomo solo. Detta così sembra la scoperta dell'acqua calda, e in effetti lo è, ma nondimeno una larga, larghissima fetta percentuale di cittadini ritiene ancora affidabili quei telegiornali e quell'informazione che più o meno direttamente ricreano una realtà "di Stato", per non usare altre espressioni più crude. C'è voglia di opinione pubblica come dimostra l'interesse crescente per trasmissioni più indipendenti come Report o come il Tg de La Sette, ma si tratta ancora di cifre minime, che servono sì a controbilanciare un poco lo straripante conformismo, ma che non bastano a far scoccare un'inversione di tendenza, ossia una richiesta generalizzata di qualità e di vero giornalismo. Subissati dalla cronaca nera, ingolfati dal gossip, la maggior parte degli italiani si accontenta, si distrae, in molti casi difendendo la propria posizione. Solo una minoranza cerca una via diversa, e sarebbe troppo comodo, troppo ecumenico sostenere che si tratti di una minoranza senza colore politico: un colore c'è, e non è quello della destra berlusconiana, arroccata su posizioni che variano dall'opportunismo più bieco al conservatorismo un tanto al chilo (leggi: sono conservatore quando serve a me). Ma è una lotta impari a quanto sembra. Nella stasi generale della teleutenza, qualche traccia di vitalità non basta a dichiarare fuori dal coma una società pesantemente arretrata, tradizionalista nel peggio, sempre pronta ad accusare la classe politica di tutti i suoi mali ma senza il coraggio di guardarsi allo specchio. E quello specchio, purtroppo, è l'immagine banale e sconfortante della televisione.

Espiazione, di Ian McEwan

Nell'estate del 1935, la tredicenne Briony commette un crimine di conseguenze incalcolabili, proprio nello stesso giorno in cui, qualche ora prima, ha scoperto di essere diventata una scrittrice. A farne le spese il giovane Robbie, accusato di una violenza che non ha commesso, e Cecilia, sorella di Briony, innamorata di Robbie. Ma la guerra incombe, tutte le questioni personali sono insieme assorbite e dilatate, ma non dimenticate, e continueranno a tormentare i protagonisti di questa vicenda fino alla fine. Espiazione è considerata l'opera più importante e riuscita di Ian McEwan, probabilmente non a torto: il romanzo è a più voci, ma senza eccessi schematici: i protagonisti si succedono sul palco con naturalezza, si muovono, interagiscono e reagiscono. E' un romanzo, ma la forma, con qualche variazione espressiva, potrebbe essere benissimo quella di una tragedia: c'è indubitabilmente un fato che incombe, un evento che indugia tra due vie salvo poi imboccarne una, e non sempre per un buon motivo. La vita di Robbie e Cecilia è spezzata per sempre, e senza che sia data loro possibilità di intervento, e il fatto di non rassegnarsi non cambia le cose: l'alone inquietante (e tragico appunto) della predestinazione incombe sulle loro vite, e anche su quella di Briony, condannata a rivivere quel gesto, quell'atto stupidamente infantile per tutta la vita. McEwan costruisce un impianto narrativo grossomodo in due parti e una chiosa finale: la prima con una narrazione praticamente in presa diretta, visto che metà delle pagine racconta un'unica giornata, e la seconda con uno scarto cronologico molto ampio, che abbraccia più o meno i primi due anni di guerra. Se la seconda scansione funziona e avvince grazie ad un buon ritmo e ad una prosa efficace, la prima francamente mi ha convinto poco, pur comprendendo le intenzione di fondo dell'autore: la dissoluzione dell'alta borghesia inglese in vista di una guerra devastante andava descritta attraverso i dettagli, le minuzie di questa piccola corte di campagna, adagiata in pigre e consolidate abitudini scambiate per tradizioni. La prosa, però, è quella che è: nel tentativo di addentrarsi nella minutaglia resta imprigionata tra soprammobili e granelli di polvere, appesantendo l'azione oltremodo, e oltrepassando di parecchio la soglia dell'essenziale. Ora, siamo tutti d'accordo sul fatto che un romanzo non viva solo di essenziale: ci sono digressioni tanto inutili quanto indispensabili, variazioni di temi, di tempi, di modi, che, nella loro accessorietà, servono più di interi capitoli. Ma McEwan tende ad abusarne. Forse per allungare il brodo, forse per un compiaciuto sfoggio di tecnica. A conti fatti, le due sezioni del romanzo sembrano appartenere quasi a due penne diverse, o comunque alla stessa penna sfoderata in due momenti distinti. Al di là del fatto tecnico, comunque, è un romanzo che sfida temi ultimi (la morte, la colpa...) e che punta l'attenzione soprattutto sul versante pubblico/privato: la vita del singolo si scontra con la Storia, dando luogo ad un cortocircuito in cui sarà sempre la Persona a perdere: perdere tempo, giovinezza, energie, speranze. Che cos'è l'espiazione in ultima analisi? L'autore lascia il lettore libero di farsi un'idea. Che la guerra sia esplosa solo per far scontare a Briony la sua colpa? E' una tentazione letteraria, peraltro, credo, filologicamente scorretta. E l'autore ce ne dà conferma: siamo cattivi per delle sciocchezze, mostri per debolezza, indolenza, incapacità di capire. La guerra, poi, è conseguenza di colpe collettive troppo grandi per poter essere assimilate ai torti inflitti e subiti ogni giorno: è il lavacro in cui tutto, indecentemente, si accorpa e si confonde, si smembra e si ricompone. Allora forse l'espiazione è solo una scelta che il penitente opera tra i mali che ha a disposizione.

storia di noi due

Compiranno gli anni a breve, a distanza di pochi giorni. Pelé e Maradona sono due icone del calcio, generalmente considerati i più grandi, coloro che per intenderci si contendono da quasi un ventennio la palma dei migliori di sempre. Sono due personaggi, due icone, due simboli. Come in tutte le narrazioni che si rispettino, le loro vite sono andate al di là del campo sportivo: sono diventate due modi di vivere, due stili. In altre parole sono diventate un fatto politico. Pelé l'esempio di sportività, di correttezza, di consenso plebiscitario: il ministro, l'uomo benvoluto dalle piazze di tutto il mondo. Maradona il maudit, lo sfaticato, il dopato, quello che "se solo di fosse allenato un poco", quello con i conti in sospeso con il fisco in Italia, quello che a New York non può mettere piede, l'amico di Castro e delle rivoluzioni. Pelé ha ormai settant'anni, ma ne dimostra venti di meno, anzi: è uguale a quando ha smesso di giocare. Patto con gli angeli o con Satana, chi lo sa. Diego è quello che è: prima obeso, poi magro, poi di nuovo inguardabile. Capelli corti, capelli lunghi, barba, sbarbato. Ginocchia a pezzi, perché di botte i difensori gliene hanno date tante. Figli di qua e di là. Cocaina e chissà che altro. Pelé ha sospeso per un attimo una delle tante e terribili guerre africane, durante una tournée con i suoi Cosmos; Maradona ne ha vendicata una, quella delle Falkland Malvinas, durante una partita contro l'odiata Inghilterra, in una delle pagine più pazzesche della storia dei mondiali. Pelé ha segnato un'infinità di goal: c'è chi dice che il computo totale si aggiri intorno ai 1.200 o qualcosa del genere; Diego ha segnato molto meno, ma in tutte le sue reti c'è un sentore magico, un tocco inconfondibile, e sono praticamente tutte da cineteca, rigori compresi. Ma tutte queste considerazioni sono al massimo dati statistici o poco più; l'ingegno, la prontezza, la capacità di rendere arte uno sport non passano attraverso i numeri, sono una dote innata, un dono, un carisma, sono ciò che ha reso le mani di un pittore rinascimentale uno strumento di gloria. Quando un campione sportivo esce dal suo terreno per invadere con la sua personalità quel territorio impervio che è l'immaginario collettivo, allora siamo in presenza di un evento, che con qualche cedimento romantico potremmo definire mistico. Al netto di tutto ciò, tra i due, io scelgo Maradona. Il perché l'ho già detto in pratica: è un maudit. Un vincente che ha saputo perdere come solo i fuoriclasse sanno fare: rovinosamente. Uomo sbagliato, che ha umiliato il proprio talento consapevole di poterlo ritrovare intatto e splendente un attimo dopo, atleta che ha sprecato un patrimonio unico al mondo proprio perché solo lui poteva perderlo. Diego è questo, e per una volta tanto è vero il motto popolare secondo cui "non si discute". C'è della materia narrativa infinita nella sua vita: come in una parabola evangelica c'è lo splendore e la miseria, il tradimento e il perdono, la morte e la resurrezione: sì, anche questo. Perché se c'è un esempio che la figura contraddittoria di Maradona può dare è che una volta caduti per terra ci si può rialzare, una volta, due volte, tre volte, anche con tutto il mondo contro e con un corpo acciaccato che sembra non volerne più sapere. Più di tanti vincenti di professione, abili moralisti con la sentenza in canna, Diego non si è mai nascosto dietro un dito: ha mostrato tutto, alzando la soglia del pudore almeno quanto quella del suo talento. Ma lui poteva farlo, può farlo, perché ha un dono, e tutti quelli che non ce l'hanno possono solo stare a guardare, impietriti, l'uomo che riusciva a palleggiare anche con una goccia d'acqua.

il Mar dei Caraibi

Il fatto che uno possa comprarsi legalmente delle villone in un paradiso fiscale non è niente. Il fatto che ad essere coinvolto in questa faccenda sia sempre il solito imprenditore a noi ben noto, poi, non dovrebbe stupire più di tanto. Al di là della legalità o meno, che per il nostro si è rivelata in più occasione essere una questione di stati d'animo, resta l'impressione di trovarsi di fronte sempre allo stesso problema: l'arroganza dei soldi. La concentrazione di tanto potere e di tanto denaro nelle mani di uno solo è la madre di tutti gli equivoci, di tutti i conflitti di interessi, di tutti i dubbi che sorgono sull'operato di un uomo che bene o male è costretto, in quanto proprietario, a gestire questa massa di denaro, che da qualche parte dovrà pure sfociare. Il conflitto di interessi? Sì, il conflitto d'interessi. Questo spauracchio, questa cassandra che tutti cercano di imboscare, sminuire, dimenticare. Si parla tanto di giustizia uguale per tutti, ma qui siamo al cospetto di una logica, figlia del peggiore capitalismo, che di fatto ha già superato il concetto: mancano i criteri minimi di giustizia sociale, quella istanza così impalpabile, così astratta, che dovrebbe limitare, se non impedire, che le possibilità economiche coincidano sempre e comunque con le maggiori possibilità sociali. Di fronte ad un possidente, che può permettersi di "avere più cose", di pagarsi un avvocato migliore, di espatriare eventualmente, il concetto stesso di giustizia viene a mancare, per diventare al massimo materia da legulei, nauseante tenzone verbale tra giuristi. Non ci sono pari opportunità, checché ne dica il ministerino creato per l'occasione. In ultimo, un'occhiata ai sondaggi: delle villone ad Antigua non frega niente al 40% della popolazione italiana, mentre un 7% è riuscito a dire che "il presidente ci sa fare con gli affari". Direi che questo basterebbe a commentare il tutto. E' inutile che una minoranza rumorosa, di cui mi sento di far parte, continui ad indignarsi: c'è una maggioranza che regge molto bene, e che consente alle cose di rimanere così come sono.

Barnum triste

In questi giorni è sotto gli occhi di tutti la drammatica, ma forse poco notata, frattura che sta vivendo l'informazione italiana: da un lato la morbosità della cronaca nera, tremendo veleno da spargere sulle menti del pubblico, e dall'altro il giornalismo d'inchiesta di Report o di Presa diretta. A tornare alla mente è sempre la solita e ormai bollita questione: sono gli italiani che desiderano essere inondati dall'acqua sporca della cronaca nera (oltre sessanta ore di trasmissione sulla triste vicenda di Avetrana) o sono piuttosto i palinsesti televisivi a infondere dosi micidiali di sangue e sesso nelle molli arterie dell'opinione pubblica? Argomento dibattuto, con più o meno successo, ormai da molto tempo: più o meno da quando la febbre reality ha contagiato la generalità dell'informazione televisiva, generando un cortocircuito che ormai impedisce di capire dove finisca un genere e dove ne cominci un altro. La cronaca nera miscelata ai toni e al clima da reality show è proprio questo ormai: un genere narrativo. Scadente, va da sé; una narrazione di fatti e luoghi reali che diventano trame di una fiction, con telecamere sempre presenti, parole a vuoto, giudizi un tanto al chilo da parte di emeriti sconosciuti. Protagonisti i coinvolti nelle vicende, ma anche tutta quella pletora di giornalisti televisivi che campano su questa inflazione e che, spogli di ogni pudore, difendono la loro indifendibile attività, abusando della libertà di cronaca e del diritto di dire un'opinione. Il genere d'appendice, a cui idealmente appartiene la nera, scivola nel cabaret puro, quando a dire la propria ci si mettono anche psicologi da talk show e opinionisti dell'ultim'ora. E' uno sconfinato Barnum, e per di più mellifluo, moralista, sorprendentemente sgradevole, sia nei modi che nella patina paternalistica con cui tratta le lacrime e gli analfabetismi dei poveracci che ingloba nel suo spettacolo. E il giornalismo, quello d'inchiesta, quello vero, finisce ai margini, tra una minaccia di querela e l'altra, prigioniero di un pregiudizio idiota e ignorante che premia sempre il peggio, che a sua volta quasi sempre coincide con ciò che si vende meglio. La tentazione è ascrivere la principale responsabilità di questo decadimento allo sdoganamento della "pancia", organo di senso che ormai ha soppiantato il cervello in molte delle manifestazioni della massa. Che a forza di "essere se stessa" prima o poi sarà costretta a vedersi nello specchio per scoprirsi obesa e cinicamente superficiale.

Peter Handke, un diario

Peter Handke è forse il principale autore vivente in lingua tedesca. Austriaco, fuori dagli schemi, portabandiera di una letteratura difficilmente classificabile, che spazia dalla poesia al romanzo fluviale, dal testo breve al saggio minimalista. Assecondando questa sua vena multiforme, Handke è anche autore di uno dei più bei diari del novecento letterario: Il peso del mondo, raccolta di appunti vari, di brevi prose, di note estetiche e ispirate. Osservatore delle cose e cultore dei dettagli, lo scrittore austriaco compie un viaggio dentro se stesso e la natura degli oggetti che lo circondano, alla ricerca di un'armonia sempre sul punto di infrangersi o di sfuggire dalle dita. Il diario, genere minoritario e sottovalutato per eccellenza, diventa specchio del mondo, strumento per capire e per capirsi, lente non deformante per intuire il meccanismo delle cose. La prosa coglie la realtà nel suo farsi, perché il bello, ci insegna Handke, si nasconde nelle pieghe, negli orli, nei risvolti, e in tutti quei luoghi di passaggio - ma indispensabili - che di solito vengono trattati alla stregua di anticamere, porti franchi. Era parecchio tempo che non prendevo in mano questa edizione consunta e logora de Il peso del mondo: ogni volta che si rileggono questi scorci, che si riassaporano questi movimenti emotivi viene voglia di dire: "Era tutto sotto i miei occhi e non avevo capito niente." Questa, in fondo, è la grande rivelazione di Handke: un sussurro denso e carico di presagi, dove l'auscultazione della natura coincide con quella di sé, con il proprio battito interiore. In altre parole potremmo dire che questo diario si occupa di ritmi e di coincidenze: quando l'autore sente che il battito del suo cuore corrisponde al movimento di una foglia, in quell'istante può dirsi compiuto, realizzato perché inserito nella logica del mondo. Lo stupore dell'artista diventa sgomento, e poi, in diverse, strazianti note, distanza dalla vita, dolore per il tutto: diventa peso appunto, consistenza insopportabile della materia. E' la grande lacerazione raccontata in queste pagine.

la stanza chiusa

E allora il racconto lo pubblico su questo blog, dopo la vergogna di Villa Greppi.

LA STANZA CHIUSA

Le ombre che vedo sono ombre del tuo corpo; il fruscio è la stoffa sulla tua pelle. I contorni del tuo viso non li noto, sfuggono, risucchiati da una veglia troppo breve. Sono in silenzio, e non sono più i miei sensi a dirmi dove mi trovo. Mi osservo, dall’alto, piccola macchia di carne sdraiata in un letto, ormai inerme. L’alone di luce che mi circonda è bianco, anzi, azzurro, una pallida area luminosa che viene dai lampioni fuori, sulla strada. E’ una serata di pioggia. Le auto sfrecciano fuori dai vetri, lasciando dietro di sé quell’inconfondibile brusio delle gomme a contatto con l’acqua.

Di me ho un ricordo tenue, che nemmeno posso dire se sia vero o falso. Sono spezzoni, frammenti. Lei ritorna spesso, in molti fotogrammi, ma sono immagini sfocate, in ordine sparso, senza una cronologia, senza un passato né un presente. Io e lei ad un caffè, a Parigi, io e lei a Milano, dove questa volta? Ad una mostra, forse. Poi Roma, una delle ultime tappe, ma è a Parigi che ci siamo conosciuti. Lei non era come tutte le altre, aveva movenze diverse, aveva un carattere che sfuggiva come sabbia dalle dita, impossibile da trattenere, da sondare. Chi sei ora? Vedo la tua ombra, è tutto quello che mi resta. Siamo noi due e poi la fine del mondo. Noi due, qui dentro. Un motel, ecco cosa, forse. Questi posti si assomigliano tutti, hanno quella cortesia felpata e preconfezionata che si trova ovunque. Siamo sempre venuti qui, sulla statale. Noi due, ancora una volta, io e te, in questo abbraccio che sembra non voler finire.

Il primo viaggio insieme è stato otto mesi fa, sembrava niente, una ragazzata, due persone ormai adulte che decidono di rompere gli schemi, per una volta nella vita. Siamo andati, senza temere le conseguenze, quelle non ci appartengono, non sono parte di noi, non hanno mai accompagnato la nostra storia. Anche tu mi dicevi ogni volta che la vita è un attimo, che non si può calcolare tutto, che tu nemmeno avevi intenzione di farlo. Mi ricordo anche dove, eravamo dalle parti di via Vittorio Veneto, dove lavori, e io ero venuto a prenderti per pranzare insieme, una di quelle sorprese che tu tanto amavi e che a me piaceva farti. Stavamo parlando delle conseguenze, appunto. Io ti ho detto qualcosa come: “Non si può prevedere tutto.” E tu mi hai risposto, sistemandoti la ciocca che puntualmente ti cadeva morbida sulla fronte: “Non voglio calcolare tutto, non ci credo ai calcoli, io.” Il tuo ritratto sta in queste parole, nella loro elegante fatuità, ma anche in quella sinuosa levità che emana il tuo corpo, così flessuoso, così forte.

Tutti e due avevamo un’altra vita. Tu donna in carriera, io padre di famiglia. Tu lo sapevi, ma sei stata al gioco, perché noi due esistiamo in fondo solo nella dimensione del gioco: corpi che giocano, che si fondono, che diventano una cosa sola per lo spazio di un soffio, e che poi vengono gettati all’opposto, in due inferni troppo distanti per poter entrare in contatto. Ora però è questo buio, e le parole che arrivano rare alla bocca, come gocce spremute da una pianta ormai secca: parole vuote, che non bastano a descrivere ciò che è stato, il fondo opaco dei sensi che abbiamo unito e poi rinnegato, tutto nello spazio di pochi mesi che ci hanno visto vivi come mai ci era accaduto. Ti fermi a pochi centimetri da me: mi fissi, con un’occhiata che mi gela, che mi fa sentire solo per la prima volta dopo tanto tempo. Lo so: avrei dovuto comportarmi in un altro modo, ma sono un vigliacco tesoro, possibile che non lo avevi capito? Ma no, l’ho capito anche io da poco tempo, dopo anni in cui mi sono creduto invincibile e perfetto, una macchina da guerra che collezionava successi ovunque: un esempio per tutti gli altri. Quanto ci si sbaglia quando si dà tutto per scontato. Credo che questo sarà il mio ultimo pensiero; forse non dovrei già più essere qui, ma qualche cosa mi trattiene, dietro questi vetri appannati che sono i miei occhi, a fissarti, mentre sistemi le tue cose, chiudi la valigetta e te ne vai. Con le ultime parole che ho avuto in gola ti ho detto che tra noi era finita. Tu lo sapevi, avevi già capito tutto in anticipo. Hai accettato anche questo incontro clandestino, eri bella come non mai. Mi hai ascoltato, inespressiva, hai sorbito le mie ultime patetiche scuse: la storia del padre e marito responsabile e del “ti meriti di meglio”. Meglio o peggio ero io ciò che volevi. Sparare il colpo a quel punto è stato il meno, vedermi cadere sul letto, con gli occhi sbarrati è stata la logica conseguenza. L’unica possibile, mia bella carnefice.

buon appetito

Il ministro Tremonti ci fa sapere che con la cultura non si mangia. Una frase un po' povera che ha trovato il facile applauso dei tanti poveri di spirito disposti a sottoscrivere una trovata tanto infelice. Io torno modestamente alla mia proposta: chiudiamo il Ministero dei Beni Culturali, eliminiamolo in via definitiva. Perché se non siamo abbastanza di buon senso da capire che la rinascita morale ed economica (anche economica) della nazione passa attraverso la valorizzazione dell'enorme giacimento culturale presente in Italia, allora meritiamo sul serio una bella privatizzazione generale e chi s'è visto s'è visto. Vorrei tanto dire al ministro: è vero che la cultura non è un panino con la bresaola, ma perché non accettare il fatto che un paese come l'Italia debba preservarla e promuoverla per rilanciare la propria immagine nel mondo? Altro punto: siamo in crisi per colpa del patrimonio culturale o per colpa di qualche concretone che ha mandato a puttane l'economia mondiale per la pura e semplice smania di fare quattrini? E tutti gli economisti che ora si concedono il lusso di denigrare la cultura italiana additandola come covo di buoni a nulla, dov'erano di grazia? E allora chiudiamolo il ministero, perché non lo meritiamo, lasciamo che vada tutto alla malora, come già scrivevo tempo fa. Con i proventi di ciò che venderemo potremo mangiare per un po', sovvenzionare l'improduttività dell'apparato politico, regalare qualche omaggio ai supermanager del settore pubblico. Già che ci siamo potremmo anche elevare al rango di patrimonio culturale un po' del puttanaio promosso ogni giorno dalle reti Mediaset, che bene o male producono e stanno al passo: sarebbe una manna per le casse. Un po' di pelo e via andare, ci mangiamo sopra tutti quanti ancora per due vite.

opinioni di Mamet

I tre usi del coltello, di David Mamet, è una raccolta di saggi in cui lo sceneggiatore americano analizza i tre aspetti della rappresentazione: la sceneggiatura, la regia e la recitazione. Non si tratta di un manuale, non viene teorizzato un metodo: Mamet parla della sua esperienza nel cinema e soprattutto nel teatro, traendone spunto per alcune osservazioni pratiche del mestiere. Nel libro si dispiega quella che è la sua poetica: essenzialità messa al servizio di un obiettivo; niente ciance, nessuna enfasi. E' un lavoro duro quello descritto da Mamet, un lavoro a tempo pieno, massacrante, difficile, che richiede pazienza, carattere (ne dà una definizione bellissima), passione, ma soprattutto capacità di cogliere il nucleo delle cose, il cuore pulsante di ogni singolo gesto. Un modo per arrivare alla verità? L'autore non lo crede. L'arte in generale, nella sua concezione, non è fatta per cambiare il mondo; serve per allietare, per farci riflettere, per assumere un punto di vista nuovo. Si può essere d'accordo o meno, si può essere d'accordo in parte, ma le questioni che vengono poste sul piatto sono dense: sono materia di meditazione, ma anche suggerimento pratico. Il "metodo Mamet" ha svariati campi di applicazione. Tra un colloquio e una confessione, un'appassionata arringa e un aneddoto, emerge a poco a poco una biografia intellettuale avvincente, in presa diretta, dove tutto, alla fine trova la sua collocazione: l'esperienza, gli errori, i successi. Anche qualche stroncatura, come quella, senza appello, del celebre metodo Stanislavskij, perché non c'è alcun nesso tra talento e accademia, sarebbe come se "la Corsica, vantandosi di aver dato i natali a Napoleone, si proponesse come base di allenamento per imperatori". Gli aforismi fulminanti, tra l'altro, sono molti, e non sono battute estemporanee, sono dati empirici ricavati dall'esperienza, come per esempio l'imprevedibile tirata contro le scuole di recitazione: "Non inventate nulla, non negate nulla, parlate in modo chiaro, state dritti e state alla larga dalle scuole." I tre usi del coltello in definitiva è una presa di coscienza, un discorso a muso duro, e soprattutto un invito a prendersi dei rischi e delle responsabilità. Un metodo che forse non garantirà il successo, ma che di certo renderà più facile il rispetto di sé.

un colpo da maestro

A me sembra che gli umanisti non si rendano conto che buona parte della letteratura è solo divertimento e svago, appunto come i centri commerciali e i reality. Ora, lo svago è sacrosanto, ma se lo può permettere solo chi ha tempo da perdere. Non un Newton, ad esempio, che andò una sola volta a teatro, e scappò prima della fine. Non un Darwin, che trovava Shakespeare «cosí insopportabilmente pesante da trarne disgusto». Non i molti premi Nobel o medaglie Fields, che ho sentito con le mie orecchie affermare di non avere interesse a leggere «storie inventate». E non un barbaro impegnato a creare un nuovo mondo, come appunto sono quelli citati da Baricco.

E poi, più generalmente, non c’è forse il rischio che chi si abitua a sentir raccontare storie, alla fine diventi facile preda dei contastorie? L’esperienza, purtroppo, sembrerebbe proprio suggerire di sí.

Piergiorgio Odifreddi, dal suo blog su Repubblica.it


Mi sembra che valga la pena di riportare questa gioiosa chiosa finale, prodotta con il consueto misto di derisione e faciloneria dalla penna del professor Odifreddi. Credo che questa constatazione sia del tutto gratuita, superficiale, recitata en passant e senza molti argomenti a suo sostegno (salvo la quasi comica aneddotica su Darwin e Newton), perciò non vale la pena di prendersela poi molto. Nella sua prosa elementare, il professore dimostra di non sospettare nemmeno che le conoscenze, di ogni matrice, possano essere correlate tra di loro attraverso una fitta rete di scambi, che rendono il discorso culturale una grande metafora dell'umanità; dimostra di non sapere nulla di letteratura e nemmeno di linguistica (che in senso stretto è un processo logico, non un reality o una fiction). D'altra parte nemmeno lui ha trovato una forma migliore per divulgare le sue idee: libri e librerie, parola scritta, linguistica, alfabeto. E pazienza se le sue storie sono suffragate dal rigore della scienza, mentre Shakespeare era un povero mentecatto che inventa fanfaluche. Quello che colpisce nelle parole di quest'uomo è la totale arroganza intellettuale, il piglio maligno e canzonatorio, la continua invasione di campo nei confronti di argomenti che non conosce e che pure si ostina a frequentare, con il furore sacro di chi è convinto di essere nel giusto. Un furore materialistico matematizzante che non lo rende poi molto diverso dagli integralisti che lui, nella sua copiosa produzione pubblicistica, avversa tanto. Nel suo sarcasmo a poco prezzo, nella sua inguaribile superficialità c'è qualcosa di molto peggio del furore gesuitico: c'è il disprezzo dell'altro. Traspare, nella prosa del professore, una totale assenza di dubbio che sulle prime mi fa quasi invidia, salvo poi dover ammettere con me stesso che quel dubbio, quell'incertezza primaria, è tutto ciò che ci distingue da un calcolatore o da una bestia, e per una ragione molto semplice: è la nostra grande salvezza laica. Non so francamente se il professore pensi davvero quello che scrive, ma a questo punto mi sembrerebbe grave in entrambi i casi; forse, in un altro paese, l'insulto rivolto a tutti coloro che nelle lettere e nell'espressione artistica credono avrebbe sollevato perlomeno delle obiezioni: qui non è stato così. Liquidare Shakespeare come un cialtrone non è esprimere un'opinione: è commettere una cattiva azione. La chiusa del post sopraccitato poi è un capolavoro: come se non sapessimo che nei roghi finivano anche e soprattutto libri di narrativa. Perché insegnavano a pensare, divulgavano idee e visioni del mondo non condivise, rompevano gli schemi, davano fastidio. L'"esperienza" di chi, caro professore? La sua? Ma se ha appena detto che non legge storie inventate? Ma qui mi fermo. Alla fine il fustigatore è infilzato dai suoi stessi articoli: scritti in qualche modo, con argomenti scadenti. Mi viene da lanciare un'ipotesi letteraria, con buona pace di questo signore: e se tutta 'sta faticaccia la stesse facendo per vendicarsi di un perfido professore di lettere delle medie? Sai che risate.

una frase

"L'arte, che esiste per portare armonia, diventa intrattenimento, che esiste per distrarre, e sta diventando totalitarismo, che esiste per censurare e controllare. Il desiderio di esprimersi diventa, in mancanza dell'artista e di fronte al terrificante, il bisogno di reprimere."
David Mamet, I tre usi del coltello

Questa frase del celebre sceneggiatore americano David Mamet mi ha fatto non poco riflettere; non tanto perché essa costituisca una rivelazione, ma perché con poche, chiare parole, fotografa una verità difficile da smentire: l'arte accorpata a concetti come "spettacolo" e "intrattenimento" diventa una realtà depotenziata, privata della sua carica eversiva, e quindi costruttiva. E' un'arte addomesticata quella che stiamo vivendo in Italia (e probabilmente non solo in Italia) oggi. Lo testimonia lo scarso rispetto che un paese come il nostro riserva al suo patrimonio culturale, un bene che anziché essere vissuto nell'ottica del rilancio e delle potenzialità, diventa ultima delle palle al piede, destinatario delle briciole e dell'elemosina di Stato. Le cause di questo mutamento fatale sono tante, troppe, non le so nemmeno io tutte. Provo a dirne una: la televisione privata che ha ucciso quella pubblica distruggendo i contenuti? La mancanza di una sana cultura popolare che offra spunti di riflessione anziché modellarsi sui peggiori istinti del pubblico? Queste sono solo alcune ipotesi. D'altra parte sarebbe meglio togliersi dalla testa che l'arte, e la cultura in senso lato, siano materia di divertimento, se non nel senso etimologico: conquistare il piacere della fruizione artistica è difficile, serve del tempo, e questo diventa un grosso intralcio nel momento in cui l'arte (sia essa musica, pittura, letteratura...) viene ormai comunemente associata alla voce "tempo libero". E quindi libero da riflessione, problematizzazione, capacità di confrontare. In altre parole: libero dall'avere un'opinione.