la battaglia del pane

Il caso dei bambini figli di insolventi lasciati a pane e acqua in un comune del Veneto scopre uno scenario inquietante, e per molti aspetti irrecuperabile. Appellarsi ad un presunto codice di giustizia per giustificare il fatto che dei bambini vengano discriminati nel piatto della mensa mi pare francamente un eccesso. Il piglio da forcone con cui lo si è fatto, poi, sottende un senso dell'equità paesano e un po' taglionesco che fa poco onore a noi tutti; manca solo che venga chiuso il ragionamento con un bel: "Così imparano". Imparano che cosa questi bambini? La discriminazione, l'umiliazione dei diversi, dei figli di un Dio minore, che cosa? Un tempo i figli della comunità erano figli di tutti, perché era uso che ciascuna famiglia si prendesse carico anche un po' dei figli degli altri. Non c'erano porte, non c'erano inferriate. Comunità, del resto, viene proprio da comune, ossia condiviso: luogo fisico e culturale in cui nessuno viene lasciato solo, specie se è più debole o in difficoltà. La famiglia, ora come ora, capita spesso sia un luogo di solitudine, di arroccamento, quasi che ogni tinello fosse l'estremo ridotto da difendere con le unghie e con i denti. Il risultato è una guerra subdola, strisciante, che non guarda in faccia a nessuno, che tira in ballo regole che ogni buon senso si guarderebbe bene anche solo dal citare. I probi contro gli accattoni, la brava gente contro gli ignobili approfittatori. In una comunità le tasse si pagano anche per venire incontro a chi è rimasto indietro, secondo le proprie possibilità: questo si chiama stato sociale, questa è la principale possibilità civile che ci resta di fronte all'egoismo più sfrontato che cerca di farsi portatore di legge.

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