pensando a Truffaut

Come avremmo bisogno in questo momento di un uomo come François Truffaut. Dico uomo prima che regista e artista di prima grandezza. Ne avremmo bisogno perché ci aiuterebbe a liberarci dal peso delle false preoccupazioni, dalla melma delle incertezze procurate e non veramente avvertite. Era un sognatore con la concretezza che solo un artista sa avere. Maneggiava materia umana con la delicatezza di chi sapeva che le vite delle persone e le storie che le intessono sono una sostanza fragile, appena percepibile, che rischia di andare in frantumi alzando troppo la voce. Ci ha parlato del cinema e della vita attraverso il cinema, ma è stato anche molto di più: un narratore, che ha alimentato le sue storie con la sua storia, che ha odiato e amato l'esistenza venendone ricompensato e infine giustiziato, con una fine dolorosa e tragica. Di Truffaut ci restano molti film, molte idee, e in generale la testimonianza di un uomo coraggioso, che non scese mai a compromessi con le sue idee, e che anzi le difese, le amò, le portò alla loro massima espressione. Non fu un cattedratico, né tantomento un prodotto d'accademia: la sua opera parla di una limpidezza densa che non è mai verbosa, e meno che mai intrisa di luoghi comuni e di intellettualismi, nonostante che lui fosse un intellettuale di spessore, di rara intelligenza. Amava il cinema e la sua opera era per lui una missione; il resto non contava: le apparenze, le convenienze sociali, gli obblighi di stato erano solo un intralcio di cui liberarsi il prima possibile. Era uno dei pochi registi che sapessero valorizzare la figura femminile, che la comprendessero senza fraintenderla in un senso o nell'altro. Anche per questo ci sarebbe stato ancora bisogno di lui, ma a quanto pare dovremo accontentarci del poco che passa il convento. In mezzo, una pletora di mediocri, di falsi artisti, di politici che di cinema e di arte non sanno un cazzo e che si permettono di criticare, che so, Roberto Rossellini. Consolarci pensando che si tratta di gente da poco non aiuta granché.

l'è propri 'n gran Milan

Diciamola tutta, Milano non si è mai distinta per qualità e sostenibilità della vita. E' una città che ha fatto da traino rispetto alle altre, che si è espressa sia sul versante industriale che su quello del terziario e terziario avanzato. Ma di politiche per la qualità dell'ambiente e dell'aria ne ha proposte poche, spesso solo per tenere buona la fronda verde e quella parte di opinione pubblica un po' stanca di soffiare nero dal naso. Il fatto è che la salvaguardia dell'ambiente e, più in generale, della qualità del nostro modus vivendi, non rientra nelle priorità della città: c'è poco da fare, non fa parte del suo habitus mentale né dei suoi interessi storici. Milano non ha tradizione in questo senso, e per generazioni la cittadinanza ha accettato questo contrappasso come il più ovvio e naturale dei prezzi da pagare. Per questo sono abbastanza pessimista circa le sorti verdi e sostenibili del capoluogo, confortato in questo senso, si fa per dire, anche dalle parole del sindaco, la quale alle polemiche risponde serafica: a Londra stanno peggio di noi. E' una risposta da amministratore, non da principale esponente politico di una delle prime città d'Europa; è una risposta che denuncia anche una specie di rassegnata impotenza di fronte ad un fenomeno, quello che una volta si chiamava inquinamento, la cui soluzione con tutta evidenza non rientra tra le priorità della città. C'è anche una questione di adeguamento storico che Milano, così come buona parte d'Italia, fatica ad accogliere: alle energie rinnovabili, al minor spreco minor consumo si preferiscono ancora il petrolio e la biella, solidi come il calcestruzzo, sicuri come un posto fisso. Serviranno generazioni perché la tendenza possa essere invertita, ma fino ad allora sarà la solita telenovela, fatta di rilevamenti ambigui, soglie variabili, pressioni delle potentissime lobby. Aspettando la pioggia, come in un film sui pionieri.

La memoria di Holden

Ci ha lasciato Jerome David Salinger, noto ai più per il celebre Giovane Holden, The catcher in the rye, l'acchiappatore nella segale, terrea traduzione di un titolo allusivo ed enigmatico, molto poetico. Ci ha lasciato nel silenzio in cui si era chiuso ormai da molti anni, in perfetta linea con quell'understatement orgoglioso e a tratti forse un poco ossessivo che caratterizzò la sua generazione e quella che la precedette. Fare i conti con la sua eredità umana e letteraria può mettere in imbarazzo, perché credo che ognuno abbia il suo Salinger, con una propria chiave interpretativa, un proprio modo di inquadrare la sua opera. Grande scrittore in forma breve, ha consegnato alla storia un solo romanzo, l'avventura controcorrente e malinconica dello scavezzacollo Holden Caulfield, giovane studente recalcitrante, in lotta con un mondo che non desidera perché paternalistico, bigotto e fondamentalmente falso. Il giovane Holden è un richiamo alla libertà, anche e soprattutto alla libertà di tentare, di farsi male e di risorgere. In quelle pagine, scritte peraltro in età ancora relativamente giovane, c'è molta saggezza, e molta vita vissuta: le parole non sono sprecate, arrivano dove devono arrivare perché prese dalla propria esperienza, dal proprio dolore. L'opera complessiva di Salinger è tutt'altro che copiosa, e questo, negli anni, ha dato adito ad una ridda di voci, di pettegolezzi letterari tutti da verificare e probabilmente poco credibili: Salinger che scrive romanzi per poi imboscarli in una cassetta di sicurezza allo scopo di non farli leggere a nessuno, Salinger uomo violento e impossibile, terribile vecchio asociale e anacoreta. L'unica cosa che sappiamo con sicurezza è che Salinger fu traumatizzato dall'esperienza bellica, come molti altri, ma di più non è dato sapere checché ne dicano molti esegeti dell'ultim'ora. Il caro, vecchio J.D. aveva certamente messo in conto questa evenienza, da gran conoscitore della natura umana, ma aveva preferito uscire di scena molto presto, lui che avrebbe potuto speculare a non finire sulla sua opera e sua sua straordinaria capacità narrativa. Nonostante tutto, credo che sia uno degli scrittori più amati di sempre, uno dei primi che abbia concesso ai suoi lettori di prendere parte al suo travaglio morale, mettendosi alla pari con loro. Ci ha lasciato senza schiamazzi, come si conviene ad un uomo d'altri tempi. Il suo ultimo insegnamento.

non baciarmi più, per favore

Baciami ancora, il film sulla generazione dei quarantenni, udite udite. Ma ha davvero senso parlare di generazione? E' un termine molto diffuso, comune, quasi banale. Generazionali sono i film, i libri, le parole d'ordine. Ma siamo sicuri che tutta questa trasversalità esista davvero? Ho provato a pensare a quale sia la principale fucina di questo enorme luogo comune: i media. Di per sé un singolo ha qualche difficoltà a percepire, con i suoi sensi, con il suo gusto, con la sua attenzione, un fenomeno vasto come una generazione. Allora i media corrono in aiuto, confezionano il mito, lo servono con contorno di canzoni, film, eventi simbolo. Ma la natura del singolo non può che ribellarsi a questa macelleria. I servizi degli scandalosi e modestissimi telegiornali, i film di qualche mediocre regista di casa nostra, non bastano a definire l'avventura di un gruppo di persone nate più o meno nello stesso periodo, per il semplice fatto che ognuno è storia a sé, storia della sua storia, dove, comunque, l'atto creativo o disperato o inerziale è sempre e comunque appannaggio di uno e uno solo. Non esistono responsabilità collettive, ma individuali. Il singolo paga per sé, e poco importa se dietro di lui c'era un movimento, una massa o un gruppo organizzato. L'alibi è già stato per così dire consumato da quella stessa generazione che ha scippato il futuro ai suoi figli, quella che ha cavalcato l'onda e ora ha il potere, ossia può fare, può decidere e deliberare. Si è data l'assoluzione, una generica, generale, generazionale assoluzione. Non c'è niente di poetico in tutto ciò, solo una dose abnorme di ipocrisia, di opportunismo, di aria fritta insomma. Non basta un film sui call center per dire come stanno le cose.

idee di Baudelaire

Per una forma eccezionale di metalinguaggio letterario, il nome di Charles Baudelaire sta diventando sempre di più sinonimo di modernità. E' come se il contemporaneo del poeta non conoscesse battute d'arresto, e attraverso un continuo ossimoro si perpetuasse lustro dopo lustro, in modo incessante, quasi incomprensibile. Chiaramente si tratta di un fatto che va al di là della letteratura stessa: si tratta di messaggio inteso in un senso, per l'appunto, metaletterario, perché in Baudelaire tutto comunica. Prima di ogni altro aspetto la sua vita: quella del dandy disperato e dissipatore, dell'esteta dal gusto formidabile, bevitore, consumatore di droghe, visionario. E poi la sua scrittura, che per la prima volta affonda le sue radici in una materia lurida, sporca, generalmente non inseribile in un componimento poetico. Bordelli, prostitute, amore carnale, ma anche solitudine, disperazione, malattia. I fiori di Baudelaire sono malsani, è la prima cosa che le leggiamo nella sua raccolta più famosa. Ma anche questo non basta a spiegare il suo successo, peraltro meritato come poche altre voci liriche nella storia. C'è una componente caratteriale che non possiamo non considerare: Baudelaire è stato un poeta degli ultimi, un cantore delle passioni maledette e frustrate, in anticipo sui tempi, in lotta con il suo tempo. In vita, è stato un grande sconfitto. Quasi mai compreso, spesso umiliato. Era in anticipo di quasi un secolo e forse anche di più, se è vero (ma sono pronto a scommettere) che la sua fama si propagherà nei secoli a venire, consacrandolo come una delle grandi voci del millennio, una delle poche menti il cui messaggio sia riuscito a trapassare il tempo e, forse per un momento, lo spessore del velo di Maya. E' moderno perché prima di tutti gli altri, filosofi compresi, è stato un grande cultore del dubbio: laddove splendevano certezze, lui è arrivato a posare le tenebre dell'ipotetico: e se Dio non esistesse? E se la famiglia non fosse sacra? Non è mai assertivo, perché è un poeta, e non può esserlo, ma arriva lo stesso al cuore della questione. Nelle inquietudini di un mondo che stava cambiando, Baudelaire è riuscito a dare un nome alle cose, ribaltando le prospettive, procedendo per negativi, sporcandosi, piangendo, facendo baccano.

ciao Federico

In contrapposizione con quanto scritto l'ultima volta, oggi vale la pena di spendere qualche parola a favore di una personalità di tutt'altro spessore. Oggi il maestro Fellini avrebbe compiuto novant'anni. E' una di quelle ricorrenze postume che contano un po' poco, ma che offrono il destro per ricordare una persona grande, un artista, una delle poche personalità artistiche italiane degli ultimi trent'anni riconosciute a livello internazionale. Non che questo in sé significhi qualcosa, ma insomma, meglio di una marchetta da cinepanettone. Un altro mio mito personale, Francesco De Gregori, scrisse in, occasione di un altro compleanno del regista, un intelligente e delicato articolo intitolato "Fellini non esiste, ma ha settant'anni", dove con penna felice prova a dare una forma verbale al perché quel piccolo o grande club di persone che credono nella possibilità che la vita possa farsi arte, abbia bisogno di persone come Federico Fellini. Fellini esiste ancora e dunque, in un certo senso, non è mai esistito, come tutti coloro che per un periodo breve o lungo hanno vinto la morte. Ma Fellini va oltre a questo stereotipo, perché in lui non c'è niente di eroico: è grande senza il senso del tragico, nonostante la triste morte, che comunque appartiene solo alla sua vita terrena e non al suo spirito. Il suo spirito sono i suoi film, o meglio: l'idea del mondo che scaturisce dai suoi film, che è al tempo stesso sognante (i suoi film sono una proiezione onirica) e ultimativa, perché tra una metafora e un bozzetto grottesco ci mette a tu per tu con quell'idea di morte e dissipazione che il boccone di plastica che stiamo succhiando da almeno trent'anni tenta disperatamente di mascherare. Il maestro tentò come poté di opporsi alla piega che stavano prendendo gli eventi. Criticò aspramente il modello berlusconiano tutto pubblicità e scemenza; girò anche un film in cui si respira questa malinconia: quel Ginger e Fred, tenera elegia di due ballerini sul viale del tramonto. Non credo che il punto in cui siamo gli sarebbe piaciuto, non credo nemmeno avrebbe apprezzato quell'insulto di Nine, la commedia musicale merrecana ispirata a Otto e mezzo. Ma forse avrebbe abbozzato, si sarebbe aggiustato il cappello, avrebbe raccontato un'altra storia. Alla faccia loro.

venghino siori venghino

Finalmente una speranza: almeno una critica negativa al film di Carlo Verdone, Io loro & Lara. Lo scintillio prodigioso arriva dalle pagine del Domenicale del Sole 24 ore, a firma di Roberto Escobar, il quale ci dà qualche pezza d'appoggio per smarcarci dal consenso plebiscitario accordato al regista. Il film non l'ho visto ancora, e forse non lo vedrò, ma intendiamoci: la colpa non è di Escobar, bensì di Verdone stesso. La campagna pubblicitaria messa in campo per la promozione del film è qualcosa di nauseante. Basta, non ne posso più. Ormai del film so tutto: trama, battute, risvolti. Il sottobosco mediatico in cui il regista si è abilmente mosso, poi, ha fatto il resto: la smaccata piaggeria con cui ha accolto regista, pellicola, attori ha travalicato ogni limite, superando di fatto qualsiasi soglia critica per approdare, senza colpo ferire, nel territorio della più vuota ed esagitata pubblicità. Il film in sé non c'entra più niente, è poco più di un dettaglio: ormai è il corollario baracconesco entro cui è servito che merita un approccio critico. La promozione così becera, così invasiva, così volgare è qualcosa che alla lunga potrebbe sortire l'effetto contrario a ciò che si prefigge: quello di nauseare le persone, allontanandole. I mezzi pubblicitari di una grossa casa di produzione non guardano in faccia a nessuno, e paradossalmente sono proprio i soldi a scavare il solco profondo e netto tra le produzioni di massa, popolari, risapute come un brodino vegetale e quello che secondo me è il vero cinema: le produzioni indipendenti e minoritarie. Dove si è costretti ad avere delle idee, tanto per chiarirci, e dove è impossibile riproporre ancora e ancora lo stesso modello da commedia all'italiana che ci avvelena l'anima da troppi anni. Mi dispiace per Verdone, che è simpatico e molto educato, ma il suo film mi ha già rotto le palle, prima ancora di averlo visto. Un record da aggiungere a quello di incassi.

Trilogia della città di K.

Una breve premessa. Trilogia della città di K. è un libro che mi insegue. Conosco il titolo per la precisione dall'estate del 2005, quando in una libreria di Riccione un commesso me ne parlò in termini entusiastici. Ma non c'è niente come tentare di insegnarmi quello che devo leggere per farmi evitare una libro. Eppure la trilogia tornava senza che la chiamassi. Tornava in tutte le librerie in cui entravo, la vedevo in mano ai passeggeri della metro e del treno, mi sentivo in qualche modo attratto e frenato. Alla fine, dopo un paio d'anni, l'ho preso. A quel punto, però, il cammino non era ancora completo, e ho pensato bene di farlo decantare in libreria per un po' di tempo, in attesa di non so bene neanch'io che cosa. Dopo quasi tre anni, e dopo cinque di conoscenza superficiale, mi sono deciso a leggerlo. Questo l'esito della lettura. Niente di semiotico, tranquilli, solo qualche impressione lungo il percorso, come faccio sempre.





TRILOGIA DELLA CITTA' DI K.


La prima impressione che si ricava leggendo il romanzo di Agota Kristof è quella di trovarsi di fronte ad un racconto interiore: i personaggi ci sono, le ambientazioni anche, un plot entro cui dispiegare la storia non manca. Eppure i conti non tornano e nasce il fondato sospetto di nn trovarsi di fronte ad un romanzo classico o convenzionalmente inteso. Ci sono due gemelli, due bambini che, sullo sfondo di una guerra non meglio specificata (probabilmente la Seconda Guerra Mondiale in Ungheria), vengono affidati dalla madre in difficoltà ad una nonna arcigna e pericolosa (salta fuori che è stata sospettata a suo tempo di aver avvelenato il marito) la quale li tratta come due servi, in un clima di totale povertà materiale e di squallore morale. I due gemelli si adattano all'ambiente, aiutandosi a vicenda e scorgendo come unica possibilità di sopravvivenza la repressione di qualsiasi sentimento. La storia prende poi pieghe inaspettate, i personaggi appaiono e scompaiono nel volgere di poche pagine, i punti di vista vengono ribaltati, le prospettive mutano di colpo. La trilogia è in realtà la summa di tre lavori distinti e complementari riuniti poi in un'unica soluzione, e si vede: le storie, pur intersecandosi e completandosi, risentono dei netti cambi di ritmo, del diverso inquadramento lessicale e di un differente umore ad ogni capitolo. Ma anche questo iato, qua e à stridente, risulta alla fine funzionale. L'autrice ha il dono dell'essenzialità, ma non ne abusa, semplicemente sceglie un tono sommesso e una prosa secca, quasi arida, ma incredibilmente pertinente rispetto ai temi trattati: nella trilogia non c'è spazio per il miele, né per la compassione. Pietà l'è morta, e ad ogni pagina ci si rende conto che ciò che si sta leggendo non è un testo, ma un resoconto, giocato in chiave narrativa, ma imbevuto di reale: le cose accadono senza un motivo, la cattiveria è in fondo insensata, banalissima, la violenza e l'aberrazione sono il pane quotidiano di un'umanità involuta, mai sbocciata, dove ciò che conta è solo l'atavica fame di cibo, di denaro e di sesso. Nessun dio all'orizzonte, nessuna speranza, se non quella di superare il dolore in vista di un altro dolore, oppure del nulla. Non ci sono genitori a cui appellarsi, non c'è famiglia, non c'è regola, le uniche speranze a cui appellarsi sono passioni derise e incomprese (come la scrittura) o amori impossibili (quello per la sorellastra). Lo Stato è una presenza ingombrante e non detta: una sorta di mostro biblico che non serve a nulla se non a complicare una vita già impossibile; uno Stato che divide gli affetti, che impone leggi assurde e che cambia a suo piacimento le regole in corsa. E questi cambiamenti, guarda caso, sono sempre a vantaggio del vincitore e del più forte. Kristof non scrive nella sua lingua madre, ma in francese, e il trauma si apprezza anche in traduzione: il suo è un periodare contratto e sofferto, scarno a livello realizzativo, ma sempre puntuale nella descrizione di fatti e cose. Trilogia della città di K. è uno dei cento romanzi destinati a rimanere nei prossimi decenni e, forse, nei prossimi secoli. E' una camera delle torture ambulante, un mattatoio delle anime, ma è anche un poderoso affresco in minore, spolpato fino al midollo, ricco di sensazioni e povero di proclami, perché non si fa portatore di una morale, e nemmeno di una verità, ma solo di una nausea indefinibile, di una sfiducia totale negli uomini e nelle loro possibilità in una specie di sfida a quel "Non - Dio di una malvagità che supera l'immaginazione". E anche se si trattasse solo di un brutto sogno, sembra suggerirci l'autrice, sarebbe troppo tardi per tornare indietro.

vaccini

Adesso salta fuori che i vaccini non sanno più dove metterli. Milioni di vaccini, deperibili nel breve volgere di un anno solare. Dopo il solito casino iniziale, dopo i soliti annunci, dopo la solita catastrofe preventiva, ecco che 23 milioni di dosi non hanno più scopo di esistere. Una minima parte andrà in donazione all'Oms, e il resto chissà. Verrà sbattuto via probabilmente. Gli italiani vaccinabili sarebbero oltre venti milioni a quanto pare; in poco più di ottocentomila hanno offerto il braccio all'ago della siringa. La casa farmaceutica che produce il vaccino, comunque, verrà pagata, in grazia di un contratto capestro firmato dallo stato italiano nella canicola agostana. Si annunciano class action, azioni della corte dei conti. Se tanto mi dà tanto verrà istituita anche una bella commissione, l'ennesima. Ma il senso di spreco rimane. Non sono un medico e non ho i mezzi per esprimermi sulla parte scientifica, ma mediaticamente ci siamo trovati di fronte al solito pasticcio italiano e forse non solo italiano, visto che in Europa solo un ministro del governo polacco aveva provato, in tempi non sospetti, a mettere in guardia di fronte ai rischi di scelte irragionevoli dettate dalla fretta. Le cose si sono messe come sappiamo nel frattempo, insegnandoci, ancora una volta, che la ragione non è detto che stia dalla parte del portafoglio e che il business della salute è un territorio vasto, largamente incontrollato, appetibile per orde di sciacalli disposte a tutto pur di speculare sulla pelle della gente. I malati, ormai è chiaro, se non ci sono si creano. Nella prospettiva sciagurata di una sanità unicamente privata (perché è a questo che ci sta portando il modello imbecille che l'Italia ha votato) si aprono scenari a dir poco preoccupanti. Tra sars e suina stiamo assistendo ad una sorta di prova generale dell'unico virus per cui non ci sia interesse a trovare un vaccino: la stupidità mediatica. Dispiace che il povero Topo Gigio sia rimasto coinvolto.

i diari di Pavese

Rileggere il diario di Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, significa entrare in contatto con il farsi di una vita e di una poetica. Tra le sue pagine si rintraccia qualche cosa che va oltre la letteratura, e che pure giustifica la letteratura stessa, le conferisce spessore e credibilità. Nel diario emerge un autoritratto senza sconti, dolente, malinconico, ora attraversato da sprazzi di ironia, pennellate di tonalità più tenui che alleggeriscono il cupo di tutta un'esistenza. Il diario non tradisce rassegnazione, ma una forma alta di consapevolezza, quella amara presa di coscienza che Pavese covava in sé fin dalla prima giovinezza, quando già all'orizzonte sembravano addensarsi le ombre che avrebbero poi alimentato il famigerato vizio assurdo. Il diario abbraccia il periodo 1935 - 1950, pochi giorni prima del suicidio dello scrittore, in un albergo di Torino: la parabola si disegna con sorprendente coerenza e nitidezza, senza indugiare nel compatimento o nel melenso. Anche nella forma diaristica si rispecchia uno stile: quello della compostezza e dell'asciuttezza, tratti cari al poeta delle Langhe, lo scrittore delle estati e della calura, del sudore, del sesso frustrato. Pavese è l'altra faccia di una generazione: quella torinese che tra molte difficoltà e pericoli è alla fine riuscita a costituire il nucleo dell'Italia culturale del secondo dopoguerra, formato dai vari Bobbio, Mila, Argan e molti altri, generazione in cui lo scrittore di Santo Stefano Belbo risulterà sempre decentrato, fuori fuoco, volutamente in disparte. Nel diario ci sono poche concessioni alla vita pubblica e sociale: pagina dopo pagina si dispiega quella che è l'officina intellettuale dell'autore, dell'acuto osservatore che mette da parte i suoi attrezzi, che affila le lame in vista di qualcosa d'altro. Un romanzo, un'interrogazione intima. Il fatto è che Pavese resta uno scrittore di difficile collocazione, uno che ha inventato uno stile (chi dice che ha attinto a piene mani dagli autori americani che traduceva, secondo me, ha capito poco o nulla di Pavese) e che sotto la coltre di quello stile, in un certo senso, si è sepolto: c'è troppo dolore nella sua scrittura, troppa iterazione tra le ossessioni di una vita, tra i capitoli che l'uomo Pavese, non sempre per colpa sua, non ha potuto chiudere. Il diario fa chiarezza, rivelando che tra l'uomo e lo scrittore non c'è iato, ma una sorta di ostinata continuità che non resterà priva di conseguenze. Ovviamente non bastano poche righe per definire una personalità tanto complessa, che svariò dalle attrici da rivista alle dense meditazioni sul senso del tragico (perché Pavese fu soprattutto questo: un cantore del tragico).

un grande passato davanti a sé

Quale sarà il futuro del libro stampato? Quali orizzonti di gloria o di soffitta lo attendono? Siamo in tanti a porci la domanda. A scadenza regolare rimbalza la questione dell'adeguamento per così dire tecnologico della veicolazione della lettera scritta. Carta o digitale? Digitale viene da rispondere di primo acchito. Il digitale consente incredibili possibilità di risparmio, di velocità, di ottimizzazione degli spazi e dello spreco di fibra vegetale. Tutto vero. Ma un libro non è un comune oggetto di consumo: è un bene affettivo che si sviluppa in tutta la concretezza e la consistenza della sua natura. Un libro è qualcosa che invecchia con noi, che rispunta ad anni di distanza dalla polvere delle cassapanche, e che reca su di sé i segni della nostra rabbia o della nostra approssimazione, della nostra partecipazione emotiva o addirittura del nostro totale disinteresse (nel caso in cui fosse intonso). E poi un libro è un oggetto di arredamento. Non saprei francamente con cosa riempire i muri di casa se non avessi i libri, pure col rischio di fare la fine pazza e assurda di quel professore protagonista del romanzo di Elias Canetti, Auto da fé, prigioniero della sua passione libresca, e letteralmente foderato nei dorsi delle copertine. Ma il fatto che si scriva un libro sulla passione per i libri, e sulla loro interpretazione diciamo pure allegorica, è il chiaro segno di una dedizione che va oltre l'impatto tecnologico. Il fatto è che a noi i libri piacciono, proprio nel senso più edonistico della parola. C'è chi ama i soprammobili, chi le auto d'epoca, chi i giochi dell'X box. A noi piacciono i libri, e non riusciamo a sbarazzarcene, pur essendo schiavi della tecnologica e della tecné al pari di tutti gli altri. E' come se l'oggetto libro scavasse un solco tra sé e la caducità di tutte le altre anticaglie obsolete che l'umanità ha lasciato per strada nel corso dei millenni. Tutto ma non la mia Babele di carta, la mia piramide eretta in nome di un culto, quello letterario, volubile e capriccioso, a volte esaltante e a volte noiosissimo, ma sempre presente, vivo, guizzante tra le nostre dita come un fluido miracoloso, che qualche volta ha il potere di aprirci gli occhi o di chiuderceli, per eccesso di pietà. La lettura (di libri) è un vizio impunito, come diceva il caro Larbaud.

raspo maschio senza rischio

Va bene, la categoria dei professori non mi piace, lo ammetto. Ma vederli arrabattarsi mentre tentano maldestre prove pubblicitarie mi ha fatto morire dal ridere. Smessa la cattedra i raspi di vino, o il dentifricio o chissà che altro. Non mi interessa se è per una buona causa, non mi importa niente se dietro questa trovata c'è chissà quale ragionamento filantropico: rido e basta, e dileggio questi signori, che tra un senato accademico e un simposio con Cartesio si concedono alle battute idiote di uno spot. Curioso come il linguaggio pubblicitario si sia ormai avviato a ricercare pezze d'appoggio non più nella bianca dentiera di un attore, ma nella solida base di un dispensatore di conoscenza professionista, garanzia di qualità per menti semplici e meno semplici, che nel titolo di professore intravedono qualcosa di più di una conferma: la dissipazione del dubbio. Professore, università, accademia, quelle strane parrucche, quelle palandrane di Carnevale: basta poco per scatenare le fantasie del pubblico, stuzzicando la gente (così almeno deve credere chi confeziona questi spot) nella sua parte più debole, che è anche quella ereditata da nonni e padri: la deferenza verso l'istituzione, la genuflessione nei confronti del magistero, e verso tutti i Moloch di ogni tempo che le persone amano crearsi da sole, come tanti vitelli d'oro di fronte a cui prostrarsi. Ogni vaglio critico è azzerato: c'è il professore, la mente certificata dallo Stato, che con la sua concessione e consacrazione ci dispensa dal farci delle domande autonome per affidare l'anima a non si sa bene chi. Un signore, un ragazzo stempiato, ma dottore, professore, emerito, asdrubale, accipicchiole. Prosit.

questione di censo

Suscita rabbia compressa ascoltare un ministrello (non male come neologismo: ministro + menestrello) qualunque invocare "severità e rigore" nei confronti di una povero drappello di disperati extracomunitari senza padri, padrini, diritti, avvocati per miliardari e i buoni offici di un salotto televisivo. Fa rabbia, perché il detto ministrello ha appena acconsentito al rientro in Italia di capitali di dubbia provenienza, perché difende gli interessi di un padrone ricco e potente che non vuole saperne di farsi processare. Fa rabbia perché, ancora una volta, siamo allo stesso punto di sempre: è il censo che fa la differenza. Se sei povero, e per giunta vestito in qualche modo e non odoroso di colonia, sei anche alla mercé della volontà degli altri; sei sfruttabile, calpestabile, insultabile, tanto nessuno verrà mai a chiedere il conto, non si muoverà qualche grosso studio legale, non ci sarà nessun buon papà che si straccerà le vesti per te, magari nella fottuta arena di un talk show. Se sei un povero Cristo, nero, senza casa e senza futuro, ti danno del tu, e non del lei, e il rigore e la severità, a quanto pare, valgono solo per te. Un po' di anni fa qualcuno, mi pare il mitico Ruud Gullit, disse che quando hai qualche miliardo in tasca nessuno si permette più di darti del negro; forse la chiave per capire il problema è tutta qui. Se queste persone di colore avessero avuto un conto cifrato da qualche parte, qualche conflitto di interesse, almeno una tv privata, la faccenda sarebbe stata di tutt'altro tenore. E anche le parole dei ministrelli, forti, fortissimi con i deboli e proni con i forti, sarebbero state più concilianti. La strada del rispetto, prima ancora che del diritto, passa evidentemente prima per il capestro del conto in banca, della bellezza estetica, della spendibilità sociale. La qualifica di persona conta poco, ormai è solo una questione di carte bollate: se rispondi ad un canone sei accettato, altrimenti, a prescindere da quello che fai o non fai sei un rifiuto umano. Faremo meglio a ricordarcene, casomai un qualche ministrello a venire si accorgesse che anche tra gli italiani c'è qualche indesiderabile.

segni e descrizioni

La natura di un testo letterario rappresenta sempre un percorso dell'immaginario, e come tale una distorsione della realtà in chiave però probabilistica, sia essa di natura cronachistica, sia essa di stampo fantastico. La critica perciò ha tutto il diritto (e il dovere) di procedere alla comprensione di un testo utilizzando tutti gli strumenti di cui dispone, tutte le alchimie e le formule che conosce per arrivare all'essenza di un testo. Qui si arriva alla vexata quaestio della critica letteraria: quali sono le metodologie? Stringendo e sintetizzando potremmo dire che le due grandi famiglie critiche sono quella militante e quella strutturalista (qualcuno utilizza il termine "semiotica" come sinonimo, dico più per completezza che per convinzione), la prima maggiormente legata all'interpretazione culturale, storica e per così dire discorsiva dell'opera, la seconda a moduli interpretativi in qualche modo matematizzati, per l'appunto strutturali, basati su dei forti tratti teorici e speculativi. La critica militante non ha scuola: si è formata sulle riviste, sui giornali, sulla libera interpretazione e sulla sensibilità di chi scrive, mentre lo strutturalismo discende dalla tradizione positivista, che ha tentato di inserire il discorso linguistico in una prospettiva scientifica, o, potremmo dire, scientista. Di norma questa seconda scuola di pensiero (dico proprio scuola, con buona pace dell'amico Esposito) non ha mai mostrato grande stima nei confronti della critica militante, che pure ha prodotto alcune delle migliori menti letterarie del novecento italiano, come Pietro Citati e Cesare Garboli. Dire che cosa sia meglio, come qualche genio di autonomina ha fatto, appare pretestuoso, per non dire inutile. La complessità di un testo abbraccia un universo che è si di segni, ma anche di pensieri, di fatti storici, di influenze, e, perché no, di intuizioni. L'armamentario teorico è senza dubbio importante e fondante della professione, ma dire che chi non si attiene ai dettami di Luckacs o Bachtin è poco meno di un ciarlatano è semplicemente un falso. Si può tornare all'esempio di Citati che ha messo Kafka a nudo con un'indagine squisitamente letteraria, oppure menzionare la straordinaria opera critica di Baudelaire. Gli esempi si sprecano. Il piacere di leggere e di capire un autore a prescindere dalla sua misurazione teorica è forse la prima missione della letteratura; il fatto che la fruizione di un'opera possa passare attraverso la sua esegesi piuttosto che la sua dissezione chirurgica non è uno scandalo, specie quando tale operazione chirurgica lascia spazio a più di una ambiguità ideologica. Si tratta di vedere attraverso quale parete un lettore preferisca affrontare la scalata.

ceci ne pas une pipe


A seguito della discussione con un caro amico, mi è tornata alla mente una questione su cui rifletto ad intervalli regolari senza trovare un definitivo bandolo della matassa: in che modo la letteratura (ma si potrebbe dire ovviamente l'arte in generale) è stata influenzata dall'uso di droghe e sostanze alteranti in genere? A livello quantitativo si potrebbe dire parecchio, va da sé. Dal settecento in poi con l'esplosione dell'oppio abbiamo documenti e testimonianze che parlano dell'apporto per così dire immaginifico delle droghe nelle opere letterarie, ma anche prima, se si pensa a certi intrugli medievali a base di erbe, belladonna, mandragola, solo per citare degli esempi. Autori come il mitico De Quincey, Gautier ne hanno fatto uso e abuso, per non parlare naturalmente di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e di tutta la cerchia dei simbolisti. L'elenco potrebbe continuare con l'etere, la morfina, la mescalina, l'Lsd, che tenne a battesimo gran parte del filone beat, per arrivare fino alla cocaina. Al novero aggiungerei anche gli eccessi alcolici che hanno caratterizzato l'attività di parecchi scrittori, specie appartenenti a quella "generazione perduta" di Hemingway, Faulkner, Dos Passos e tanti altri. Sappiamo dalle fonti filologiche e storiografiche che questa influenza c'è stata, meno facile è capire se abbia o meno avuto effetti sulla qualità delle produzioni. Di certo il fenomeno percorre come un filo rosso tutta la produzione occidentale degli ultimi secoli, quasi mai senza conseguenze, ma tutt'altra faccenda è capire se l'assunzione di droghe abbia o meno migliorato la qualità del lavoro artistico. Dare una risposta è difficile. La conclusione a cui sono giunto è che probabilmente gli stupefacenti applicati a menti creative abbiano in qualche modo aperto le porte della percezione, come ebbe modo di dire Aldous Huxley, amplificando una sensibilità e una capacità di astrazione già comunque presente. Ma senza talento, niente sarebbe stato possibile, anche se questa può forse suonare come la morale più facile e conciliante. Di certo il confine tra tossicodipendente che scrive e artista in cerca di ispirazione è assai labile; molti alla fine non erano altro che relitti umani senza più arte né parte, uomini che con il pretesto di amplificare il proprio talento erano riusciti solo a bruciarlo. Il fascino di certi argomenti sta anche nel non sapere bene come posizionare i confini.

rispostame

La rivoluzione del web ha comportato un'accelerazione nel nostro modo di recepire e interpretare le informazioni; si tratta di una rivoluzione che libererà la propria carica nel tempo e di cui stiamo vedendo solo i primi effetti. Si tratta in larga parte di aspetti positivi: le informazioni girano rapidamente, smascherano imbrogli, aiutano le persone a vivere meglio e con più consapevolezza. Altro che il digitale terrestre insomma. Il bello della rete è che è libera, nel senso che c'è di tutto; c'è anche il male, inutile nasconderlo. Gli episodi di adescamento dei minori e di pedofilia sono indubbiamente gli aspetti più gravi e da reprimere, ma non si tratta solo di quello: internet è come se avesse improvvisamente affrancato una forza oscura e latente che albergava in molti di noi, forse in tutti, anche se in misura diversa; è come se una parte di noi si fosse lasciata andare agli istinti, protetta dall'anonimato e dalla distanza fisica. Ho scritto tempo fa delle liti a mezzo you tube, ma l'elenco di piccoli orrori potrebbe continuare con quella specie di sciocchezzaio che sono le risposte in rete. Domande che vanno dai dischi preferiti al cancro alla prostata, e per ogni cosa decine di risposte. Vere, false, inventate, chissà. Gente sola, a volte sprovveduta, spesso solo inesperta che si affida con qualche speranza di troppo ad un prossimo di avatar e nickname, un fondo perduto di opinioni, sentito dire, approssimazioni, scemenze in cui la verità si impasta e si invischia fino a non essere più individuabile. Potrebbe andare bene per quanto riguarda i dischi del cuore, ma per la salute? Il regno dell'opinione dell'uomo della strada è sterminato, sconcertante, invadente come un cugino remoto che si fa vivo una volta all'anno per spiegarti la vita. Tutti sono esperti di tutto, e ognuno ha la sua verità da diffondere, su qualsiasi argomento, a qualsiasi ora, con, a volte, condimento di vaffa, insulti, pistolotti non richiesti. Non so quante risposte si riescano ad ottenere. Per le domande a tema, le domande generali non ci sono problemi ovviamente. Ma le domande esistenziali restano senza risposta, sia in senso filosofico che più strettamente sanitario. Alla fine tutti hanno un'opinione, ma sembra che nessuno sappia niente. Ho la risposta del solone telematico: basta non andare a cercare. Grazie.

la sicurezza dell'ovvio

Nel prendere la via di mezzo, non si corrono grossi rischi. In una società ampiamente massificata, omologata, impaurita, a tratti anche decomposta, la terza via, quella rassicurante, di rutilante buon senso, è quella che garantisce più applausi al prezzo più basso. Applausi poco convinti, ma tant'è, bisogna pur mettere da parte fascine per l'inverno. Non avere un'opinione è quasi considerato un pregio, il disinteresse rispetto a ciò che è la vita pubblica, e quindi anche politica è quasi preso a modello: "Non buttiamola in politica, lasciamo stare la politica." Non si tratta di dividere tra engagè e disimpegnati a tutti i costi: si tratta di vedere quanto un'opinione, un'idea, possa determinare una differenza nei comportamenti, non tanto a livello generale quanto a livello di singolo, che è forse l'unico ambito in cui si possa intervenire. Sostenere cose ovvie serve a poco, così come elogiare chi non produce idee, ma solo pistolotti di modesta caratura. Non fa poi così male prendere, una volta ogni tanto, uno straccio di parte. Come insegna Camus: dire di no; oppure dire di sì quando la generalità è pronta a flagellare il diverso, il nuovo. Si parla tanto di riforme, ma questa parola è solo un gioco di prestigio, un altro fumogeno gettato dritto negli occhi di chi beve la comunicazione massificata. Le riforme (quali, poi?) sono meno di nulla se dietro non c'è una presa di coscienza, una serena consapevolezza dettata, magari, non solo dall'interesse a breve termine, che quasi sempre coincide con quello economico. Se bastasse accodarsi, annuire, abdicare a qualsiasi senso critico in favore di un rassicurante conformismo avremmo risolto il problema; il punto è che la Storia ci insegna che i popoli rassegnati alla logica del gregge quasi sempre hanno prodotto disastri, disastri in cui ha giocato un ruolo fondamentale la variabile del buon senso, entità mutevole pronta per essere messa al servizio delle peggiori cause. Ogni tanto anche un colpo di reni può servire, con buona pace dei fumogeni e dei loro lanciatori.

delusione

Provo un vago senso di sconforto misto a disgusto tutte le volte che sbircio l'inserto dei quotidiani con in copertina qualche regista di casa nostra. Muccino, Virzì, tutta questa gente insomma. Parlano come se fossero Fellini o Bergmann, come se avessero inventato il cinema, o come se fossero degli artisti. Strapagati per girare sul nulla. Questa benedetta borghesia italiana, tutta famiglia e puttane, tutta rovelli interiori e piccole vigliaccherie. Non c'è niente di nuovo, parlano sempre delle stesse cose, senza inventiva, senza niente. I loro film valgono poco o nulla e basano tutto sulla pruderia di chi guarda: il giovane alla ricerca del lavoro, il padre di famiglia con l'amante, il trentenne che non si decide a crescere; dicono di parlare del Paese, della ggennte, ma è solo retorica. E così il cinema viene ridotto ad una specie di telenovela, di fiction atta a soddisfare chi guarda nel peggiore dei modi possibili: facendolo sentire uguale agli altri, ritagliandoli addosso la storia e servendogliela con tutti gli ingredienti che più gli piacciono. Il cinema italiano è inguardabile e noioso proprio per questo: non riesce mai a fare un passo in là, a guardare oltre se stesso. Non è un'opera d'arte: è un trafiletto di cronaca, scritto perlopiù in qualche modo. E questi registi non sono artisti. Professionisti al massimo, ma artisti no. L'artista va oltre se stesso e prende a pugni chi lo guarda. Non lo consola, non lo fa sentire italiano medio a suon di pacche sulle spalle. Forse mancano gli sceneggiatori, forse mancano i produttori coraggiosi. Di sicuro mancano gli attori (incredibile a dirsi visto che tutti vogliono fare gli attori) visto che le facce che si vedono sono sempre quelle. E' un cinema che merita di fallire insomma, che merita di non valere più una cicca a livello internazionale. Quanto alle interviste di questi mostri sacri, francamente non ho più l'animo di leggerle; non credo che questi signori abbiano più niente da dire, ammesso e non concesso che ce l'abbiano mai avuto. Meglio un bel classico, sia letterario che cinematografico. Meglio lo sperimentalismo di qualche sconosciuto. Meglio un colossale fallimento piuttosto che il compiaciuto estetismo all'amatriciana di questi individui.