per Eugenio Montale

A pianterreno
SCOPRIMMO CHE AL PORCOSPINO
PIACEVA LA PASTA AL RAGÙ.
VENIVA A NOTTE ALTA, LASCIAVAMO
IL PIATTO A TERRA IN CUCINA.
TENEVA I FIGLI INFRUSCATI
VICINO AL MURO DEL GARAGE.
ERANO MOLTO PICCOLI, GOMITOLI.
CHE FOSSERO POI TANTI
IL GUARDIA, SEMPRE ALTICCIO, NON N’ERA SICURO.
PIÙ TARDI IL RICCIO FU VISTO
NELL’ORTO DEI CARABINIERI.
NON C’ERAVAMO ACCORTI
DI UN BUCO TRA I RAMPICANTI.




Una poesia semplice, come lo è stata quella del Montale ultimo: descrizioni, epigrammi, scalfitture in un terreno friabile. La stanchezza dell'uomo alla fine del suo viaggio. La domanda sorprendente a Parise: "Dici che dopo morti diventeremo delle foglie?". In questo contesto trova posto la poesia A pianterreno: poche pennellate, un porcospino, una pasta al ragù, il muro, i rampicanti, l'orto. C'è il Montale dei "gocci aguzzi di bottiglia" dei primi anni, ma siamo anche oltre, in una nebbia che è sì vecchiaia ma anche comprensione ampia e circolare. In uno dei miei pochi anni di scuola andammo, noi di sette otto anni, ad una specie di rappresentazione teatrale in cui ci fu presentato questo testo. Eravamo tutti troppo piccoli per capire qualcosa e l'ambiente ricordava in modo sinistro un centro correzionale, con questi individui parecchio bruschi che ci facevano mandare a memoria questi versi, che per noi significavano poco o nulla. Amen. Altro capitolo della strage educativa. Per fortuna la forza della poesia sopravvive anche all'inettitudine delle persone. A pianterreno è la forza evocativa che emerge dal vissuto, che lo compenetra, lo esplora e poi riemerge per parlarne a noi mortali. L'andamento della lirica è piano, senza inutili rime baciate, quasi prosastico, con versi lunghi che variano dalle otto alle undici sillabe: distillati di quella materia preziosa che è la memoria, appunto, poetica. Non chiediamo di più all'autore: siamo in un territorio privato, intimo, di una delicatezza inafferrabile; siamo nell'officina del poeta che torna con la mente ad un luogo, un luogo minuto, semplice, e lo trasfigura, lo rende memorabile. Operazione già condotta, con risultati altrettanto notevoli, per esempio nella Casa dei doganieri. Ma qui siamo in un campo di ricerca ancora più minimale: il protagonista è un riccio, animale della terra, che scava un buco e va oltre, va al di là, all'insaputa di tutti. Inno alla libertà? Forse è dire troppo. L'incertezza interpretativa è troppo alta. Accontentiamoci di questo panorama notturno e discreto, del suo silenzio.

l'inquietudine di Pessoa

E' uno dei libri che mi hanno formato di più, perciò mi risulta impossibile o quasi presentarlo in modo asettico, tecnico, filologicamente rigoroso. Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares di Fernando Pessoa rappresenta probabilmente la summa intellettuale del grande poeta lusitano, nonché una sorta di struggente confessione, di lungo addio, di apologia della mente che Pessoa ha voluto regalare. Le definizioni del Libro dell'inquietudine si sono sprecate: diario, raccolta di illuminazioni, autobiografia priva di fatti. Tendendo al massimo l'arco semantico del termine si potrebbe anche parlare di romanzo. Un romanzo certamente atipico, senza cronologia, senza fabula né intreccio, senza piani narrativi ma con prospettive di tutt'altro genere: prospettive poetiche. Laddove la prosa sembra condurre la mano del poeta, infatti, ecco che le carte si imbrogliano e nasce la Poesia, nasce la ricerca dell'immagine e del suono, seguendo le esilissime tracce della vita interiore di questo inesistente Bernardo Soares, ennesimo eteronimo di Pessoa. Mi sono imbattuto in questo libro unico al mondo diversi anni fa, e dalla sua lettura ne sono uscito trasformato, perché ho capito il valore della parola in sé, il valore della solitudine e la ricchezza espressiva che può essere scovata anche nei pensieri più banali e nelle immagini più comuni. Non una poetica del quotidiano, tutt'altro: una poetica dello straordinario che si cela nell'immobilità. Pessoa, sotto questo profilo e non solo, è un grande antimoderno, che cerca dentro di sé le riposte e che si limita a operare nel mondo per quel tanto che basta a vivere, perché il vivere vero sta da tutt'altra parte. Lui stesso ci dice: "L'esperienza della vita non insegna niente, così come niente insegna la Storia." Consapevolezza di poeta, per l'appunto, ma anche tacita e assorta malinconia, accettata come compagna stabile e duratura. Nelle sue parole non c'è rassegnazione ma accettazione: sono le parole di un intellettuale che non vuole saperne di lottare per cause che non gli appartengono. Libro misterioso, enigmatico, compilato un po' alla volta nel corso di una vita intera, su fogli volanti, taccuini, quaderni, senza l'ombra di una stesura metodica, ma soprattutto libro lirico, musicale, e quindi poetico nel senso più vero della parola. Il libro dell'inquietudine è una raccolta di visioni, ora tragiche ora ironiche, che tracciano un grande affresco su quanto di impossibile, probabile, incerto ci sia nella realtà.

altri scrittori (e un revisionismo)

In passato ce l'ho avuta a morte con Stephen King. Perché lo vedevo come un insaziabile dattilografo, perché troppo americano, perché troppo spiccio su certi versanti e troppo prolisso su altri. Perché orgogliosamente commerciale. C'erano diversi motivi si può dire, non ultimo la sua personale biblioteca scelta: un catalogo di americanate senza pudore, ma soprattutto, eccezion fatta per Faulkner, senza l'ombra di un classico europeo. Made in America fino in fondo. Ma ora come ora mi trovo a fare una riflessione al limite del banale: va bene, eccede in dattilografia, ma almeno scrive sul serio. Al di là dell'indubbio talento e del ricco giacimento di fantasia narrativa che risiede nella sua mente, è uno che scrive davvero, che prende maledettamente sul serio quello che fa, che si pone prima di tutto come scrittore e poi come tutto il resto: personaggio pubblico, intellettuale e via dicendo. King, come lui stesso ammette, è uno che si alza la mattina con la scrittura in testa, uno che si siede a tavolino e comincia a lavorare a un libro, a una storia. Perché per lui scrivere non è mai stato né sarà mai un passatempo. Ora, a me il suo genere non piace troppo, ma il suo atteggiamento, bisogna concedere, è di assoluta onestà intellettuale. Mi ricorda Moravia in questo, un altro che si alzava la mattina per scrivere, con buona pace dei concretoni e delle comari dalla chiacchiera facile. Mi viene da dire che a questo punto preferisco King, che scrive talvolta dei ponderosi volumi, piuttosto che lo stitico scribacchino de no antri, che computa a fatica le sue paginette poetiche al ritmo di un fiume che scava l'ansa. Libriccini, piccoli piccoli, densi di nulla, dove non c'è storia ma solo qualche sbaffo di penna, qualche ideuzza, qualche ritrattino. Poi vanno alla tv a dire che ci hanno messo anni per mettere la virgola proprio in quel punto e non in un altro. Geni, maestri, candidati ad un Nobel che poi va sempre a qualcun altro. King ha scritto, tempo fa, On writing, godibile chiacchierata sulla scrittura che ho letto con piacere. Non sarà un un poeta (come invece pretendono di essere molti imbrattacarte delle nostre parti) ma almeno dà consigli che stanno in piedi, i consigli di uno che è tutta la vita che scrive, tutti i giorni. Gli altri continuino pure a grattarsi.

scrittori

Non ce n'è uno che parli bene del suo lavoro. Hanno vergogna di chiamarlo lavoro, vanno di perifrasi: passione, passatempo e così via. Si schermiscono, antepongono il loro alter ego rispettabile: l'avvocato, l'economista, il chimico, il macellaio. Come dire: guardate che sono una persona seria tutto sommato, sì, va bene, ho il viziuccio di scrivere, ma solo un poco la sera. Ne parlano, si diceva, un gran male. Uno che circola su internet dice che andremmo tutti "presi a calci in culo", lui compreso. Ma perché? Suona bene dirlo. Siamo una banda di sbandati, di vili, di ipocriti appesi alle voglie dei (pochi) lettori e di case editrici sempre più in confusione che fanno di tutto tranne che occuparsi degli scrittori. Gli scrittori. Li vedi poi, depressi, che abbondano in tv, specie se autori di genere. Giurano che nella vita fanno anche altro, sia mai di turbare qualche coscienza, dicono anche che non è che siano proprio scrittori, ma insomma, sono scrittori così così, part time, vabbé niente di serio. Mi fa morire quello rossiccio di capelli, consunto, che fa di tutto per sembrare uno che non ha niente da dire e poi tiene banco per ore. Confermando perlomeno che le cose che ha da dire sono sempre le stesse. Invita a sperare nell'Arcadia: semina, poi chissà, magari. Niente di male: teme la concorrenza, come in qualsiasi settore che si rispetti. Certi scrittori venerano prima di tutto il mercato, non fa più molta vergogna nemmeno dirlo. Certi scrivono a stento cinquanta pagine che le vesti editoriali gonfiano almeno a quattrocento. Poi parlano della Musa e dello spirito. A quando la prossima, maestro?

milioni

Eravamo in tre milioni, e il cielo era terso e azzurro. Mi riesce difficile crederlo se ripenso alla piazza deserta in cui mi sono presentato armato di tanta buona volontà. Qualche difficoltà a far intendere il mio nome di battesimo, ma è una vita che mi si ripresenta la stessa scena e ormai non ci faccio più neanche caso. Posso dire che si sia trattato di una scelta politica consapevole, di una conferma di un percorso umano e culturale che ora, proprio ora, mi sembra più concreto e compiuto. Si passa l'esperienza attraverso il setaccio del proprio vaglio critico, si prendono delle decisioni, si capisce che cosa si ritiene giusto e che cosa invece ripugna. Il disincanto, la noia, la delusione fanno alla svelta a trasformarsi in indifferenza, e, a conti fatti, in qualunquismo. Ieri invece eravamo tre milioni con la moneta di Dante in una mano e la matita nell'altra, pronti a tracciare un segno su una scheda, ma soprattutto, almeno per quanto mi riguarda, ansiosi di dire: io non sono così, io credo in altre cose, ho altre cose da dire e soprattutto in altro modo. Viene da credere che quel concetto sfibrato dalla retorica che è la democrazia acquisti vero valore solo attraverso piccole e continue battaglie contro la propria pigrizia: contro la voglia di non preoccuparsi, di demandare nelle mani di qualche praticone una certa parte del proprio futuro. Tre milioni, comunque. Sarebbe ridicolo sminuzzare la cifra con le solite cavolate: sei milioni di occhi, tre milioni di cuori etc... Basta dire tre milioni, basta provare a vedere in fila tre milioni di persone per capire che qualcosa è successo davvero.

rimpatriate

La gioia delle rimpatriate cinematografiche è qualcosa di coinvolgente. Li guardo e mi sento uno di loro: gaudente sul tappeto rosso, in vena di dichiarazioni, di disperazioni, di proclami. Contro la violenza, contro la fame, per la pace, per i poveri, contro la caccia alle marmotte. Attori, registi, produttori. Si abbracciano sul tappetone, questa lunga lingua di feltro che non si decide mai a risucchiarli. Due registi obesi e sorridenti. Pancette di lauto adipe e larghi sorrisi per i fotografi. "Caro collega, ho criticato altri tuoi film, ma questo... questo è veramente un capolavoro." Mi sarebbe piaciuta anche una citazione colta, non so, magari un'esaltazione del "montaggio analoggico" di fantozziana memoria. E poi: ma sarà possibile che sono sempre gli stessi? Gli stessi registi, gli stessi attori che si premiano addosso senza risparmio, oggi a me domani a te, in un crescendo di festival, kermesse, sfilate di varia natura. Forse è per questo che nel tempo ho cominciato ad ammirare al di là di ogni ragionevolezza Werner Herzog, uno che davvero ha vissuto l'esperienza cinematografica, e artistica, sulla propria pelle, rischiandola e maltrattandola, la pelle. Ne parlerò più diffusamente in seguito probabilmente. Ma viene da riflettere ogni volta che si pensa a quanti modi esistono per fare cinema: con i pruriti delle massaie o trasbordando un battello (vero) da un capo all'altro di un guado senza effetti speciali, come il regista tedesco in Fitzcarraldo. Non credo vedremo mai Herzog su certe lingue di panno. Lui infatti è magro, molto più magro della media dei registi, di norma assai pasciuti. No, per carità, va tutto bene. Non sono loro i fessi.

favola calda

La cara casa, dolce, dolcissima. Mi fa piacere, vederti nel tuo corpo di sposa, ora che tu sola puoi darti la ragione sociale di moglie, e un compito, un ruolo attorno al focolare. La casa, tu dicevi, la bella casa, la dolcissima: dove altrimenti accumulare quel patrimonio affettivo e familiare che negli anni di matrimonio si accumula? Patrimonio è il maschile di matrimonio, ci avevi mai pensato? Ma no, non fare brutti pensieri ora, non è importante l'etimo, ma la sostanza, quella che tu sei certa di ottenere negli oggetti. La cura dei dettagli. I cessi, almeno due. Un armadio, ampio, profondo, meglio se una stanza intera, attigua alla camera da letto; un letto poi, ovvio. Grande, ampio, ma non massiccio, di quelli moderni, con una spalliera non troppo imponente, e la scelta dei materiali: lattice o che altro? Il giardino poi meglio non buttarlo via. Un pezzo di terra in onore degli avi, un terriccio ribaltato dagli scavi su cui piantare un po' d'erba, e pazienza se sotto, ma sotto almeno quattro o cinque metri, c'è una lastra di cemento. Basta che si riesca a scavare per i canali d'irrigazione. Poi servirebbe un poco di tempo per comporre dei decori, tipo qualche fiore di campo, qualche ornamento, pizzi e merletti per far capire che qui finalmente c'è una donna. La via era detta Balilla ai tempi del fascio. Ora è una più placida via Marconi. Sai chi me l'ha detto? Mia nonna, una delle ultime a saperlo. Mi ha detto anche che si ricorda di casa tua, quella nella rientranza del muro, con quella bella porticina blindata che un tempo non c'era. Mi ha detto che la gente lì ci andava a pisciare, e se devo essere onesto sono vecchio abbastanza per ricordarmelo a mia volta.

lettera aperta

Eccoli, sono sempre loro. Non cambia la loro faccia, sono sempre i padroni del vapore. Hanno avvinghiato le radici della loro famiglia alle viscere della terra, e niente riuscirà ad estirparle. Nonni, padri, figli, hanno tutti le stesse facce, gli stessi nomi che si trasmettono da una generazione all'altra. Studiano al collegio dei preti e poi all'università dei preti o a quella dei ricchi. Sono sempre loro, con lo sguardo addormentato e l'occhio spento. Dominano il paesino, hanno lo scranno segnato in consiglio comunale, sono i principi della contrada. Ma io lo so. Lo so perché vi conosco, lo so perché vi vedo scorrazzare da quando sono nato, lo so perché puzzate di incenso e di puttana; lo so perché è da quando sono alto un metro che voi vi credete i padroni e vi sentite a casa vostra in una terra che è mia. Lo so perché il mio Dio è diverso dal vostro e il Padre nostro che dico io non è quello che dite voi. Lo so perché sono socialdemocratico e voi no. Voi avete sempre votato quello che vi veniva comodo, e avete sempre appoggiato il più forte e quello che vi permetteva meglio di farvi i fatti vostri, di far proliferare i vostri affari, le vostre fatture non emesse, i vostri conti segreti, i vostri aborti in Svizzera. Siete sempre gli stessi, non siete riusciti a cambiare, non siete riusciti nemmeno ad aggiornarvi. Ora i vostri figli e nipoti cercano in qualche modo di imparare l'inglese, ma insomma, la sostanza è la stessa: sostanza di piccolo potere, di latifondo, di piccole ruberie. Lo so perché vi vedo da sempre, lo so perché, citando Pasolini, sono un intellettuale che ricorda, che collega fatti e persone. Siete l'accezione più schifosa della borghesia, ma non mi fate paura. Io sputo sulle vostre corone d'alloro. Non mi interessa se siete amici di un prefetto, di un sindaco, di un generale. Lo eravate anche prima, siete sempre stati amici di qualcuno, non fate che ripetere la stessa minaccia da sempre. Andateci voi a morire ammazzati, non Rossellini.

motivati e competenti

Motivati e competenti, non si aprono molte strade per il futuro. Motivati e competenti come suggerisce il secco professorino dalla voce spiccia. Siamo nel pieno gorgo della settorializzazione, la riduzione di una persona alla sua competenza tecnica, niente di più e niente di meno. Non si tratta più di avere un'idea, ma semplicemente di essere in grado di attuare un piano nel migliore dei modi nel minor tempo possibile. Lo richiedono le imprese, dalle quali, per una serie di scelte sbagliate del passato dipendiamo. Un'alternativa di futuro data in cambio di una spolverata d'oro zecchino, la canna da pesca in cambio del tonno in scatola: e tutto per trovarci costretti a vivere come formiche. Già il vituperato e per nulla letto Marx aveva detto qualcosa in proposito: stiamo tramutando i mezzi in fini; il denaro, da mezzo per produrre beni e accedere a prodotti, sta diventando il fine a cui immolare non solo la produzione di beni ma anche la qualità della vita. Questo pallido e consunto professorino associato è arrivato angelico ad annunciarci quello che in un modo o nell'altro si rivelerà un vicolo cieco, per non dire di peggio. Non lo dico io. Lo dice Marx, per l'appunto, lo dice Heidegger, lo dice, tu pensa, anche Nietzsche. Interpretare le cose, farle proprie con coscienza critica diventerà sempre di più un problema, perché sempre di più verrà a mancare l'idea d'insieme delle cose: della società, della politica e della tecnica stessa. Dalla nostra piccola porzione di competenza, che giocoforza si farà sempre più piccola, saremo al massimo in grado di capire e valutare uno scorcio molto piccolo, al di là del quale si presenterà una selva inospitale, ostile, che non ci risolveremo mai ad affrontare perché nessuno ci ha insegnato a farlo. Da qui il problema della formazione, che da discorso culturale è diventato discorso produttivo applicativo. E con quali risultati? A forza di dire che questo non è importante e che quello non è importante e che alla fine conta solo saper fare qualcosa dove siamo arrivati? Fare qualcosa, che attenzione non significa necessariamente fare qualcosa di nuovo. Il professorino ha sentenziato la formula del successo, attraverso chissà quale osservazione di dati empirici chiaramente influenzati da un modello, quello capitalistico industriale, che da tempo sta mostrando la corda. Ma, per l'appunto, ciò che conta è essere competenti e motivati. Chissà noi incompetenti e demotivati (e immotivati) che fine faremo.

letture

Romanzo difficile da catalogare, ancora di più da spiegare. Trama fluviale, talvolta impetuosa, talvolta carsica; 2666 racchiude in sé una varietà di universi, di registri, di umori e li riversa sulla pagina con straordinaria naturalezza, accompagnando il lettore alla scoperta delle coincidenze cosmiche care al suo autore, quel Roberto Bolaño scomparso troppo presto assieme alla sua poetica e alla sua straordinaria inventiva. Inutile nascondere che ci troviamo di fronte ad un romanzo incompiuto, evidentemente incompiuto, troncato nel mezzo di un'azione che chissà cosa avrebbe potuto riservarci. Una buona recensione dovrebbe almeno in minima parte suggerire la trama. Compito arduo. 2666 è la storia di uno scrittore scomparso nei gorghi della cronaca, ma è anche la scia di sangue lasciata da un misterioso assassino di donne; sono le vicende di tanti personaggi più o meno principali che si intrecciano, si sfiorano, si lasciano e si ritrovano. Le città appaiono e scompaiono, ora vengono penetrate, ora solo accennate. Si svaria dall'Italia alla Germania, dalla Gran Bretagna al Sudamerica alla Francia. E' una geografia duttile e sognante quella di Bolaño, un rincorrersi di luoghi e facce, di memorie e aneddoti che come dei rivoli impazziti talvolta si risolvono anche nel nulla di un vicolo cieco. L'autore detta le sue regole, le cambia in corsa, varia i registri e le cadenze senza preavviso, modula la lingua, la tipografia, la sintassi: indiretto libero, correlativo oggettivo, prima persona, terza persona. Leggere 2666 è un'esperienza che lascia al contempo sazi e vuoti, soddisfatti e delusi. Non mi piacciono le classifiche, ma questo ha tutta l'aria di essere un libro che continuerà a far parlare di sé, specie se da qualche parte nelle voluminose carte di Bolaño si troverà la conclusione o almeno la traccia che indichi un possibile epilogo. Il lettore più attento, ad ogni modo, può già ritenersi soddisfatto: 2666 regala ciò che un romanzo dovrebbe regalare. Riflessione, partecipazione, piacere estetico. E' solo uno dei tanti meriti di Roberto Bolaño.

la serietà leggera

Bello rivedere Bernardo Bertolucci che parla della sua vita e della sua arte. Lui è uno degli ultimi grandi maestri del cinema che meritino di essere definiti tali. E' il più grande regista cinematografico italiano vivente, è un simbolo positivo, ma parla con la freschezza di un ragazzo. Parla di cinema, ma non solo: il suo spessore culturale gli consente di spaziare in ogni campo, ed è come se ogni sua frase, ogni immagine che con tono suadente riesce a suggerire emanasse subito altri percorsi, altri collegamenti, in un gioco di segni e rimandi. Bertolucci è una di quelle figure che mi comunicano grande calma, come Picasso, Fellini, Hemingway. Difficile trovare una spiegazione, ma forse è per via della saggezza che sanno trasmettere con ogni loro gesto: passione e saggezza, unita a quel tanto di disincanto che serve a smitizzare i falsi idoli e le preoccupazioni inutili. Fin troppo facile elencare i suoi film. Mi vengono in mente Ultimo tango a Parigi, Il conformista, Novecento. Ma, anche qui, una lista non avrebbe senso. Qualcuno ha detto che Bertolucci in realtà è un grande narratore prestato al cinema, ed è un'affermazione difficile da contraddire: la sua cadenza è quella della prosa poetica, quella nobile, di respiro storico. Autore ideologico forse (come se fosse un insulto) ma lontano dalla retorica, uno degli ultimi a saper parlare di Storia in tono epico, sullo slancio della nota, piuttosto che in minore, con il pretesto dell'undestatement. La verità è che è una delle poche persone che vorrei conoscere, a cui vorrei dire che senza i suoi film starei un po' peggio. Perché lui appartiene ancora ad una categoria di persone per cui fare film, fare arte, diffondere cultura, è ancora una cosa seria. La serietà leggera di Bertolucci: potrebbe essere il titolo di un saggio. La serietà appassionata di chi è veramente libero, e può permettersi di esserlo.

per Goffredo Parise




Fa un certo effetto vedere e ascoltare Goffredo Parise in questo video d'annata. La prima impressione che ho avuto è stata quella di rivedere un vecchio amico, più o meno lo stesso sentore che avverto ogni volta che apro un suo libro. Un amico discreto, colto, piacevolmente loquace, capace di descrizioni lievi come di profonde introspezioni. Negli anni ho raccolto praticamente tutta l'opera omnia di Parise, alla ricerca del tassello mancante, della chiave di volta che potesse illuminare quello che, in fondo, è stato il suo mistero: la storia di un intellettuale atipico, difficilmente definibile, facile da amare e difficile comprendere, giovane scrittore di provincia e spericolato reporter di guerra, narratore robusto e concreto dalle zone calde del mondo ma anche sottile poeta capace di comporre quel gioiello che sono i Sillabari. Compito arduo quello di interpretare Parise in modo corretto, senza correre cioè il rischio di fargli torto: troppe sono le sfaccettature della sua opera, troppe sono le apparenti incongruenze e le felici, felicissime combinazioni di suono e metro che hanno caratterizzato la sua opera. Dal Parise acqueo ed enigmatico de Il ragazzo morto e le comete al disincantato intellettuale di uno dei libri che più mi hanno segnato e che, probabilmente, mi hanno influenzato: L'odore del sangue. Parise indignato, Parise acuto osservatore, Parise raziocinante e pessimista, Parise solare e amante della vita, legato alla sua terra, il Veneto, anzi, il vicentino, ma anche aperto alle osservazioni sul mondo, in prima persona, come sempre: guerre in Biafra, Laos, Vietnam ma anche corrispondenze da New York. Guardando la sua opera si ha la chiara sensazione di una continua ricerca, di una disperata eppure lucidissima discesa nelle pieghe dell'umanità, fino al midollo umido delle cose, fino alle verità più scomode e spiacevoli ma nonostante ciò esiziali. Il suo è stato un corpo a corpo con la vita, o con quella nemesi che la vita gliela avrebbe portata via, in un lungo, doloroso, estenuante crepuscolo. Scrittore partito deciso con la produzione di romanzi, passò poi alla prosa giornalistica, salvo poi tornare alla narrativa pura con quel cupo gioiello di L'odore del sangue. Ci regalò anche un piccolo volume di poesie, composte durante gli ultimi giorni: forma esplicitata di quella sua vena strettamente poetica che l'aveva sempre nutrito senza mai palesarsi in forma compiuta o compiutamente riconoscibile. Sono immagini originali, curiose, testimonianza del suo ultimo anelito di vita e di arte, sorta di ultima Thule del suo percorso.
Per chiudere queste poche note, una piccola glossa. La migliore opera omnia dedicata all'autore vicentino è, ovviamente, nei Meridiani Mondadori, che raggruppano tutti i suoi lavori (compreso il raro testo teatrale L'assoluto naturale) con un'accurata bibliografia e un appassionato e prezioso commento di Andrea Zanzotto. Dai Meridiani restano esclusi I movimenti remoti, primissima prova dell'autore che si credeva andata perduta, edita da Fandango, L'odore del sangue e le poesie. Queste ultime siamo in pochi a possederle. Per approfondire la conoscenza umana e artistica dell'autore sono secondo me da leggere le pagine che gli dedica il suo grande amico Raffaele La Capria in Letteratura e salti mortali, oltre al bel libro di Silvio Perrella: Fino a Salgareda.
Nel mio Un uomo da abbattere, di imminente pubblicazione, la figura del reporter penso debba almeno l'impostazione caratteriale proprio a Parise, sia come scrittore che come persona. Non so se questo conti qualcosa, ma forse anche nel mio romanzo qualcosa di suo continua a vivere.

quando eravamo catodici

Sì, è vero, non guardo Mediaset, ma nemmeno la Rai, e nemmeno le tv digitali, e nemmeno quelle via satellite. C'è qualcosa di perverso nella passività del televisore. Eduardo De Filippo, quando riceveva una chiamata della Rai che pomposamente si annunciava dicendo "qui è la televisione", rispondeva: "Un attimo che le passo l'aspirapolvere." In questa frase c'è tutto, o una parte non disprezzabile del tutto. Abbiamo a che fare con un elettrodomestico impiegato male, e per di più vecchio, obsoleto, figlio di un'era univoca che non esiste più: la rivoluzione internet ci dovrebbe permettere di dire di no ad una tecnologia, quella del digitale terrestre, morta in partenza, già superata. Ci saranno chissà quali fini economici dietro tutto ciò, ma non mi avventuro nemmeno a tentare di scoprirli. Pier Paolo Pasolini definiva la tv come il "medium di massa" che pone sempre e comunque chi ascolta su un piano minoritario e vulnerabile, mentre l'era del web dovrebbe essere proprio l'opposto, ossia l'epoca del piano paritario, del confronto a tutto campo. Anche a costo dei commenti idioti su you tube, certamente, è uno dei prezzi da pagare. Serve una certa intelligenza per discernere lo scarto dalla materia utile. Ma la televisione, padre Zeus, la televisione... Un abisso di mediocrità che sforna a getto continuo modelli di tranquillità borghese, anestetici della coscienza, dibattiti sul nulla. Falsi miti, falsi obiettivi, persino falsi cantanti. Come se fosse così importante, come se alla fin fine contasse qualcosa. Utopia, utopia canaglia: sbatterla via, di colpo, dalla mattina alla sera. distruggere la cattedrale e i finti sacerdoti. Digitale nel fosso, ma anche l'anulare.
Qualche neurone in libera uscita è arrivato a dire che il povero Mike Bongiorno ha "unificato l'Italia". Verrebbe da stendere un velo pietoso su questa uscita, ma la dice lunga sugli effetti prodotti sulla mentalità media da questo elettrodomestico. Povero Mike: presentava quiz e televendeva materassi, porca miseria, e lo faceva da cinquant'anni. Tutto per avere come padrone d'Italia sappiamo chi (cribbio che affare). Tutto per continuare a comprare materassi e set di pentole con cambio Shimano. Ma in digitale.

sputtanismi

Difficile pensare ad una maggioranza più ingombrante. Questa maggioranza, questa massa che decide a colpi di reni la differenza tra il bene e il male, che si posa obesa sugli scranni del potere. Uno dei primi, e più autorevoli, fautori della democrazia fu Platone, il quale metteva in guardia: attenti che la degenerazione della democrazia si chiama oclocrazia, oklòs, dittatura delle masse. Il che non coincide proprio con la volontà popolare, quanto piuttosto con la sua parodia crassa e un po' beota, vogliosa di imporsi e di imporre, di più: di annullare l'alternativa, prima deridendola, poi negandola. Qualche meccanismo si è inceppato. Così ad occhio il dominio mediatico di uno solo ha avuto la sua buona fetta di responsabilità, ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo; c'è anche la sostanza più bieca del populismo, con tutto ciò che ne consegue: divisione manichea del bene e del male, nemici astratti contro cui scagliarsi, tanto per cominciare, ma soprattutto il culto dell'apparire. La devozione alla superficie delle cose, il considerarla l'unico punto di riferimento attendibile. "Non sputtanate me, perché sennò sputtanate l'Italia, la cui immagine deve essere forte e bella." L'immagine, la proiezione, la rappresentazione. Poco importa della polvere sotto al tappeto. Lo Stato sono io, guai a sputtanarmi. Mi ricorda qualcuno.

magnifico...

Dario Fo avrebbe dovuto partecipare ad un incontro sul tema Alitalia, assieme ad esperti e lavoratori del settore. L'ambiente era universitario. Ma la qualità prima di tutto. Il Magnifico scaccia il premio Nobel, lo umilia, lo declassa a cialtrone. Non sono un ammiratore di Dario Fo, ma la faccenda mi ha dato fastidio. La giustificazione è stata un saggio di saccenza: mancavano da parte dei presenti le competenze tecniche per occuparsi del tema. Siamo in consesso accademico, che cazzo: qui bisogna fornire un livello medio alto di spunti didattici agli allievi. Il Magnifico serve anche per prendere delle decisioni scomode. Comandante in capo di una legione del nulla, abbarbicata in un feudo suburbano di edifici prefabbricati e tristissimi, una schiera di casermoni impastati con lo stampo nel cuore di quello che un tempo era aperta campagna, e che ora è la Camelot del sapere ambrosiano. Niente male, questa strana istituzione auregolamentata, con delle bizzarre istituzioni interne (c'è pure un senato a quanto pare). Un luogo serio, che si prende infinitamente sul serio. Non so quanto valga un Nobel, ma ho una vaga idea di quale dovrebbe essere il valore dell'opinione di una persona. Altra frase memorabile: l'università non è il luogo delle polemiche. Meno male che adesso lo sappiamo. Mi straccio le vesti di fronte al sultanato, mi strappo i pantaloni, mi umilio e mi prostro al soglio Magnificente: ora sappiamo che il regio editto ha stabilito che la soglia del casermone è il limes oltre al quale le polemiche non passano. Andiamo a lezione, in fila per due, mano nella mano, la campanella è suonata. Basta con questi residui sessantottini, questo è un posto finalmente serio, puro, incontaminato. Non sono ammiratore di Dario Fo, ma questa volta mi piacerebbe stringergli la mano. Accolto dal Re di Svezia, ma respinto dal Magnifico. Niente a che vedere con Lorenzo, direi proprio di no.

l'ultimo moloch



Metti un pomeriggio di inizio autunno. Metti il sacro timore dell'Istituzione nella veste di un gruppo di signori in palandrana. Va in scena l'ultimo mito borghese: il festival di laurea. La sala ha l'ardire di definirsi napoleonica, e noi le crediamo sulla parola. I candidati e le candidate nel vestito buono, odoroso di naftalina dopo un paio d'anni nell'armadio. In qualche caso è preso per l'occasione, altrimenti si tratta della seconda uscita dopo il matrimonio di zio Franco. Non so esattamente cosa ci faccio qui; so solo che ho in testa un motivo di Paolo Conte che credo sia Genova per noi. Avrei solo voglia di starmene su un paracarro a pensare ai fatti miei, come quello di un'altra canzone, ma la patria chiama. Non me beninteso, eppure qualche cosa mi smuove, sento la voglia perversa di toccarlo questo Moloch: gli affreschi, le decorazioni, i tavolini traballanti (vietato toccare e appoggiarsi) tizi strani che si aggirano in minacciose palandrane. Butto l'occhio fuori dalla finestra: nel cortile interno si affacciano alcune finestre dai davanzali ornati di cactus e basilico. Un napoleonico inquilino, sbadigliando in canottiera, si infila la camicia. Poi le schiere dei parenti. Le nonne che non sanno bene che cosa stia succedendo. Le care zie nelle retrovie. Ma lo spettacolo sono le mamme: moralmente ipertrofiche, enormi. Se lo godono proprio questo momento queste gigantesche matrone all'ultima goccia di latte. Il tuo pupattolo alma mater, proprio lui. E' una festa italiana dopotutto. Accidenti a questa acustica pessima, a questi nodi alle cravatte che vengono sempre male. C'è ancora il tempo per il ripassino della figliola: una vera miss impiegata nel suo tailleurino. Da apprezzare le rilegature delle tesi: tutte dello stesso copista, tutte dello stesso colore, tutte uguali.

fenomenologia da you tube

Il commento sul web, specie a margine di un video su you tube, potrebbe diventare un nuovo genere letterario, ne avrebbe tutte le qualifiche: diffusione, riconoscibilità, fruibilità. Qualche volta è divertente vedere il sublime sciocchezzaio che rappresenta, il commentame in rete. Ho letto di gente che si è minacciata di morte via commento, e più di una volta. E poi i complimenti a madri e sorelle, un classico. Il riflusso di coscienza sale al gargarozzo un po' come gli avanzi di grasso dopo un lauto banchetto. Finalmente un luogo al mondo, ancorché virtuale, in cui darci dentro, e dirla tutta questa beata "verità", dirla in faccia a Golia, protetti da una maschera digitale che è puro incentivo alla rissa (anch'essa virtuale). Essenza di coraggio. L'aspetto antropo grammaticale poi è interessante: sono pochi quelli in grado di mettere in fila due periodi in lingua accettabile, gli altri vanno a orecchio e comunque si arrangiano. Dicono che l'importante sia farsi intendere, ma da chi? E che cosa vuole questa gente? E chi sono questi "loro", che incombono e controllano? Ad ogni modo sono tanti gli italiani stranieri nella propria lingua, e non nel senso nobile di C.B. quanto piuttosto in una salsa più casereccia, tipo: parla come mangi. Altro proverbio dei miei lasciamo perdere. Scotto da pagare alla libertà della rete, sia chiaro, di cui io per primo abuso. Come dire: prendetevi un po' di questo analfabetismo di ritorno in cambio del dire quello che volete. Tanto questo "quello che volete" finirà sepolto insieme al quaderno sotto la massa di punti di sospensione e di "emozioni" e di "amore mio" e di "tua madre e tua sorella". Troppa grazia.

librerie


Va bene la difficoltà della pubblicazione, sacra difficoltà formativa appannaggio di noi Holden più o meno attempati. Va bene che ci vuole confronto col mercato per cui via con ogni genere di sottoprodotto sottoculturale di cui si pretende di difendere la presunta dignità. Romanzetti adolescenziali, scarabocchi di qualche editor impenitente che accompagna cantanti e stelline nel meraviglioso mondo delle librerie. Tutti i libri patinati con il nome dello squinternato che li presenta, e sotto, quattro o cinque caratteri più piccolo, il nome del Virgilio ducens: Pinco Palla, con Tizio Cajo... Ma queste sono turbe, va bene. Solo che qualche cosa non funziona se di fianco a James Joyce, per una beffa crudele dell'ordine alfabetico, non comparisse Jovanotti con il suo Il grande boh. I fan insorgano, si straccino le vesti: "E' bbravvisssimo, non capisscci un catthho." "Anima, anima, anima, sentimento...... il mio cuore......... mi sbrodolo d'immenso....... Dedicato al mio amore........ cucciola....................". I puntini di sospensione in una grafia standard sono tre, e comunque andrebbero usati con parsimonia. Un po' si scrive con l'apostrofo, non con l'accento, perché l'apostrofo segnala l'elisione della parola, che sarebbe "poco" nella sua forma estesa. Altra obiezione: ma l'hai letto almeno? No, in nome di Dio no. Ma ho letto Joyce. Ma non basta. Il pellegrino trova sulla sua strada una giovane autrice laureata (ci tiene a dirlo, dopo la foglia di fico la foglia d'alloro), che propone come opera prima un opus intitolato Figabook. Non è uno scherzo. Nelle note di copertina: il pisello azzurro esiste. Ma allora i soldi per pubblicare ci sono. Ministrone mi dica: è il mercato che ha deciso questa scansione delle opere pubblicabili? E' frutto di una sana competitività, di un accrescimento industrialfinanziarioeconomicoterziario? O forse è colpa di noi elitari di merda che leggiamo Joyce?

altre città invivibili

Questa è una città senza nome. I suoi abitanti ne hanno perso la memoria. Si dice sia incastrata tra altre città con usi e costumi simili; un vecchio torrione in pietra rossa, un tempo destinato agli avvistamenti, la sovrasta, e un girone di anelli concentrici di pietra grigia la attraversa da un capo all'altro. A macchia di leopardo sono sparsi grappoli di terreno incolto, appezzamenti brulli con crateri artificiali di cui si ignora lo scopo. In mezzo a questi crateri si ergono strutture metalliche ora ancorate al suolo ora sospese, argani e funi disegnano reticolati in cielo, dove il rosso e il grigio delle polveri ha cambiato la composizione dell'aria. Difficilmente un viaggiatore trova un luogo in cui sedersi, perché le panche sono state bandite, ritenute in tempo antico simbolo di ignavia e di debolezza. Gli alberi sono imbrigliati in strane imbragature che li tengono ancorati alla terra, ma non sempre questo accorgimento si rivela sufficiente, e questi, vinti dalla gravità, si rovesciano su se stessi, alzando le radici al cielo e sparpagliando i rami e le povere frasche al suolo. Qualcuno ha parlato di alberi cadavere. In questa città i libri sono generalmente banditi, le poche iscrizioni che vi si trovano sono risalenti ad epoche antiche, ma tuttavia sono tollerati volumi di algebra e di calcolo integrale, di scienze statistiche, statiche e dinamiche. Le scienze naturali invece furono proibite o sconsigliate in anni di cui non si conserva la memoria. Gli abitanti sono molto orgogliosi della loro città, la considerano un'avanguardia del progresso e un esempio per tutte le altre.

in margine ad una manifestazione

Concetto aleatorio questa libertà. Idea che ognuno trascina dalla sua parte e prova chiamare in causa, un po' come quando un assassino chiama Dio a testimone. Mi riesce difficile anche parlarne tanto il tema è abusato, usato a sproposito. Diciamo allora che mi piace fare quello che voglio, diciamo come la maggioranza delle persone, e mi piace anche avere tutti i mezzi per capire quello che voglio e che non voglio. Non è male l'idea di farsi un'idea. Un'idea è anche un modo per affermarsi come singolo, come unità pensante oltre che digerente. E allora da qui viene buona parte del problema: che valore può avere l'essere insieme se questo insieme è una pasta omogenea, senza la gioia del contrasto? Sì, sì, è una domandaccia retorica. Ma ancora una volta il pericolo che si annuncia è quello della perdita di un diritto: il diritto di essere diversi, anche a costo di essere in minoranza, anche a costo di dire di no. La Storia, questo ammasso di fatti più o meno sensati, si è abbeverato con il sangue di questi contrasti, che, è vero, hanno generato orrore, ma hanno anche consentito di spezzare catene, di rovesciare regimi. Se andiamo a vedere la falsariga di ogni cambiamento avviene quando scatta quel qualcosa che fa dire: basta così. Rivoluzioni, ma non solo. Lasciateci leggere e scrivere quello che vogliamo. Lasciateci esprimere un'idea di diversità, di altrove, di non luogo, di altro.

altri libri

La possibilità di leggere rappresenta anche la libertà di farsi una cultura, ossia di sviluppare una coscienza che sia il più possibile critica. Passare al setaccio, mi viene da dire. Prima del talk, il ripasso, la concentrazione in privato. Si tende a confondere il libro con il romanzo, ed è strano che in Italia accada questo: paese legato tradizionalmente al componimento poetico più che a quello romanzesco. Ma il panorama letterario è profondamente mutato nel corso degli ultimi cinquant'anni, per cui il genere del romanzo in un primo momento si è addirittura venuto a confondere con quello libresco in genere, salvo poi retrocedere, lasciando spazio ad una produzione editoriale ibrida, e sostanzialmente di tenore divulgativo o dichiaratamente popolare. Modesta narrativa giovanile, saggistica risolvitutto, fai da te della politica. La sensazione spiacevole è che manchino maestri assoluti, giganti in grado di imporsi per lungo tempo: dei classici insomma. Non che non ce ne siano, ma insomma: la densità è parecchio calata. Le cause non le so onestamente. L'omologazione scolastica, forse. L'appiattimento culturale su un'unica prospettiva per lo più commerciale, immediata, votata a ragionamenti di quantità più che di qualità. Sono solo ipotesi, non ancora ipotesi di reato. Meno male che rimangono i classici di ieri, ma anche qui è antipatico fare i nostalgici. Diciamo allora che è bello sentirsi diversi, apprezzare la memoria da cui proveniamo e osservare con un certo, modesto distacco la moda passeggera come qualche cosa che ci riguarda solo fino ad un certo punto.

libri


La lettura è un vizio impunito, diceva Valéry Larbaud. Lo è perché sotto le spoglie di una nobile attività (la vulgata ha un certo timore misto a diffidente riverenza verso chi legge "tanto") si cela in realtà l'abitudine di coltivare la propria personalità in altri ambiti, con il rischio di finire per prediligere all'universo reale quello più giusto e più consistente della letteratura. E' un tema che divide: chi si vanta bellamente di non leggere un cacchio, chi antepone anche al suo nome la qualifica di lettore - lector, macchina leggente. Chi scrive generalmente legge parecchio, ma non è detto, ci sono illustre eccezioni. C'è chi come Borges sosteneva di vantarsi più di ciò che aveva letto che di ciò che aveva scritto. Salvo poi continuare a scrivere, vabbé. Il premio Nobel Elias Canetti scrisse il suo unico romanzo proprio sul tema della passione libresca: quel pazzesco Auto da fé, sorta di espiazione narrativa della simbiosi letteraria. La verità è che il rapporto con i libri rischia di risolversi in vera e propria dipendenza: c'è bisogno della presenza fisica dei libri, c'è bisogno di autori sempre nuovi, di pareti ricoperte di dorsi di copertina. Il lettore non si accontenta, vuole le copertine di un certo tipo, di una certa piacevolezza al tatto. E poi i gusti. I classici, elitari e finanche settari, gli autori degni di restare, il disprezzo di ogni sfumatura commerciale, transitoria, in qualche modo destinata a risolversi nel mero contingente. I libri sono fatti per riempire ogni momento della giornata, per colmare ogni lacuna del pensiero, o anche per mettere a tacere lo stream, quando questo si fa debordante (esperienza personale), e sono preziosi per questo: perché testimoniano la nostra esistenza attraverso le esistenze degli altri. Tralasciamo l'imbecillità di certe campagne di stato: quella sul cibo della mente. Vaglielo a dire ad un popolo trucidato da trent'anni di tv commerciale del cibo della mente.
Leggere è' una passione che non paga, anche questa, ma aiuta: nel mare del nulla immergersi nella calda placenta della cultura aiuta. Per un lettore non c'è miglior complemento d'arredo che una libreria traboccante e gonfia di volumi. C'è gente che lo fa, che risparmia per un libro, che detesta la tv a pagamento e anche quella generalista. Tenaci illusi, disperati e felici.